La dannazione italiana: riforme senza Riformismo

Un filosofo viene
tutto modesto, e dice:
– Si vuole a poco a poco,
pian pian, di loco in loco,
toglier gli errori dal mondo morale:
dunque ciascuno emendi
prima se stesso, e poi degli altri il male. –
Ecco un altro che grida :
– Tutto il mondo è corrotto
si dee metter di sotto
quello che sta di sopra; rovesciare
le leggi, il governare;
fuor che la mia dottrina,
ogni rimedio per salvarlo è vano. –
Badate all’altro; questi è un ciarlatano.

 

Nella famosa chiusa dell’ode di Giuseppe Parini intitolata I  ciarlatani il grande intellettualeharing lombardo delinea il profilo di una cultura riformista, fondata su un’azione morale, ma soprattutto su un gradualismo che porti ad interventi di correzione del mondo mai radicali e urlati, bensì frutto di una sapiente opera di previsione, preveggenza, intervento politico.

Il “filosofo” che Parini ci indica come serio e sensato è quello che privilegia anzitutto l’azione di emendamento rivolta a se stessi, prima ancora di rivolgersi all’azione sociale. Soltanto da un’azione di propria revisione morale può risultare credibile ed essere accettata anche l’azione di emendamento del “male altrui”.

E’ questa l’essenza della cultura riformista, cui noi, il partito democratico, avremmo dovuto guardare con maggiore attenzione negli anni che ci hanno visto operare in una difficile maggioranza politica che ha guidato per sei anni il nostro Paese.

Quando fallì l’esperimento del primo centrosinistra, ai tempi del governo Fanfani, negli anni ’60, si parlò di una fase storica caratterizzata da una stagione di riforme senza Riformismo; qualche anno dopo, quando si affacciò alla politica italiana l’esperienza del Partito socialista di Bettino Craxi, si disse di un’esperienza di Riformismo ma senza riforme.

Chi scrive è il primo ad aver pensato alla stagione del centrosinistra e del Partito democratico degli ultimi dieci anni come a una nuova stagione di riforme, che si auspicava potessero accompagnarsi a un cultura riformista. Ma evidentemente così non è stato. Il risultato elettorale, deludente, pur in presenza di un cospicuo contingente di interventi legislativi di riforma, sta lì a dimostrarlo.

I sei anni che abbiamo appena lasciato, con le recenti elezioni del 4 marzo 2018, sono sì stati il contesto temporale di una serie di riforme importanti, oltretutto intese nel senso di una reale stagione di ammodernamento della macchina statale, dei mercati e di importanti settori della società. Purtroppo, abbiamo però mancato nella cultura riformista che potesse e dovesse affiancarsi a tale fase di riforme.

Siamo apparsi come quei rivoluzionari napoletani ripresi da Vincenzo Cuoco nel famoso Saggio storico sulla Rivoluzione di Napoli del 1799: agitatori un po’ astratti, incapaci di indicare elementi di orientamento che portassero a completamento il processo rivoluzionario. Tali elementi di orientamento avrebbero dovuto essere (almeno per noi, nel periodo che va dal 2013 al 2017) il libretto delle istruzioni delle riforme avviate e votate in sede legislativa. Una sorta di vademecum del progetto riformista.

Invece no. E’ mancata proprio la cultura riformista a dare un senso, e una comprensibilità, all’azione di riforma politica e sociale che giustamente abbiamo avviato: in ambito economico, in ambito sociale e istituzionale.

L’avvisaglia, addirittura macroscopica, di tale carenza culturale l’abbiamo avuta quando, lo scorso 4 dicembre 2016, è stato bocciato nel referendum confermativo un progetto di riforma costituzionale che in sé era del tutto accettabile e logico: ammodernava il Paese, riduceva enti inutili e un Senato doppione della Camera (unico esempio in Europa), rendeva possibile una alternanza effettiva tra schieramenti con l’associata legge maggioritaria unicamerale. La carenza culturale è imputabile non al solo segretario del Partito democratico, sia chiaro, ma a un’intera classe dirigente (e non solo del Partito democratico): imprenditori, categorie sociali, associazioni professionali, sindacati avrebbero potuto (e dovuto) spendere una parola di verità circa quel progetto di ammodernamento del Paese, ma non lo hanno fatto, pur condividendone in larga parte i tratti (e con poche eccezioni: la CGIL, almeno una sua parte, l’ARCI, altre associazioni di minor conto).

La cultura riformista non è sopraggiunta nel difendere questa come tante altre iniziative di riforma legislativa avviate dalla maggioranza parlamentare a guida democratica.

E poi, la vera carenza di cultura riformista  è stata quella interna al Partito democratico, non del solo segretario politico, sia chiaro. Non abbiamo saputo (o forse voluto) interpretare quel motto sul riformismo che Giuseppe Parini ci aveva dedicato sin nel 1761. Chi ha intenzione di emendare il male dal mondo morale (leggi, la società e la sua corrotta organizzazione che genera ingiustizia e quindi malessere) anzitutto deve esercitare su di sé il medesimo rigore: “prima se stesso e poi degli altri il male”.

Non significa che avremmo dovuto agire come in un tribunale giacobino, tutt’altro. Significa che quanti abbiano intenzione di avanzare un serio programma di riforme si devono anzitutto predisporre a una seria azione di autovalutazione, di verifica delle proprie intenzioni, di previsione attenta delle conseguenze delle proprie azioni. Al contrario, in molti casi siamo apparsi sì come entusiasti artefici di una seria azione che mirasse a modificare le condizioni di vita dei cittadini italiani, ma non altrettanto disponibili a riformare noi stessi, le liturgie e i riti della nostra politica.

L’intervento di soppressione delle società partecipate, ad esempio, è risultato quasi inconsistente, e agli occhi dei cittadini tale inconsistenza è sembrata una scarsa volontà del ceto politico di intervenire laddove esso poteva alimentare rendite e drenare risorse nei consigli di amministrazione.

Non che chi ha vinto disponga di una tale cultura politica. tutt’altro. Ma questo sarebbe il tema di un altro intervento, che necessiterebbe molte pagine di riflessione. Leghisti, grillini, fratellini d’Italia si sono rincorsi nel comportamento che Giuseppe Parini attribuisce ai ciarlatani: rovesciare le leggi, capovolgere il mondo, propugnare la propria come l’unica dottrina accettabile; insomma, un radicalismo ideologico che non porterà di certo prosperità e pace sociale.

E tuttavia, oggi come nel 1994 o nel 2001, la propaganda populista, le promesse demagogiche hanno permesso ai ciarlatani del momento di conquistare un potere politico di cui non sapranno servirsi proprio per emendare quel mondo morale su cui occorrerebbe un serio intervento, soprattutto nel nostro Paese.

Riflettiamoci, riflettiamoci insieme. Prima se stessi e poi degli altri il male.

Terrore e imprenditori politici della paura

Pino Daniele:decine di fans in fila davanti a camera ardente

I professionisti della comunicazione della paura, gli imprenditori del lutto, i Salvini,  i Lepen, i La Russa di turno, che sperano di beneficiare lautamente dalla tragedia islamista di Parigi, dopo l’attentato terroristico ieri a un giornale satirico, avranno stappato bottiglie di champagne, per brindare alla fortuna, un po’ come fanno certi ecologisti dopo ogni esplosione di una centrale nucleare.

Incassato il dividendo del terrore, ora penseranno di passare all’incasso di una solenne cambiale che la storia ha firmato loro. E tuttavia, dietro le dichiarazioni di guerra guerreggiata, dietro le rodomontate dei crociati “de noantri”, si nasconde il vuoto ermetico di un cinico, ma privo di intelligenza storica, utilitarismo miope. Si immaginano a cavallo di una pressione emotiva di portata continentale, forse la signora Le Pen sta già sfogliando il catalogo delle tendine da scegliere per arredare ex novo l’Eliseo, e tuttavia nella loro pretesa (o presunzione)  di incarnare lo spirito pubblico dal quale già si sentono investiti di un ruolo nazionale, essi stanno stonando, e la loro stonatura emerge sopra tutto il silenzio che invece il lutto ha generato, a Parigi come in Italia, come in tutta Europa.

Sarebbe necessaria riflessione e ponderazione, in questi giorni, e invece questi imprenditori del lutto stanno già urlando, chiedendo guerra, la crociata, addirittura (testuali parole, specificamente di Matteo Salvini, leader inetto al ruolo) chiedono la fine della tolleranza.

Non si accorgono neppure che, nel momento in cui accettassimo il loro punto di vista, ovvero nel momento stesso in cui dicessimo basta alla tolleranza, sanciremmo la vittoria dei terroristi dell’Isis, perché avremo rinunciato allo specifico culturale dell’Occidente; saremmo diventati come i terroristi dell’Isis, e avremmo rinunciato alla nostra identità di occidentali.

Questo, tra tutto, indispone gli integralisti islamisti dei connotati della cultura occidentale: l’essere libera, tollerante, laica, non fondamentalista. Quando fossimo anche noi arruolati nelle file di un fondamentalismo (di qualsiasi religione volessimo), avremmo subito la nostra principale sconfitta.

In nome della lotta ad ogni fondamentalismo, quindi, continuiamo a dichiararci liberi, laici, tolleranti. Salvini e la Russa se ne facciano una ragione.

L’incertezza filologica ai tempi di Internet. Diffamazione e ingenuità nell’opera pubblica del sindaco di Cantù

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Quindi abbiamo assistito a una vera e propria opera di esegesi collettiva, uno sforzo di portata filologica degno di Lorenzo Valla, solo che questa volta una decina di utenti FB, non sulla Costitutum Constantini (il famoso Discorso di Lorenzo Valla sulla Donazione di Costantino da falsari spacciata per vera e con menzogna sostenuta per vera), si sono esercitati su una non meno contorta (ma attuale) opera di falsificazione concettuale.

Su un gruppo FB dedicato alla vita comunale del Comune di Cantù, viene condiviso un post del sindaco cittadino, solito a inveterate e furiose invettive. Una foto terribile, il famoso autonomo che imbraccia la P38, scattata nel 1977, serve da commento iconico di un post al vetriolo, in cui il di sopra scrive contro Gad Lerner, reo di averlo definito “inadeguato”: “Cavolo, mi è andata proprio bene! Quarant’anni fa, per molto meno, lui [sarebbe Gad Lerner] e i suoi compagni della “sinistra al caviale e cachemire”, mi avrebbero riservato lo stesso trattamento che riservarono al commissario Calabresi”.

Tempo due ore e la foto viene cambiata, troppo cruenta e violenta, quella pubblicata prima, e il testo riscritto: “mi avrebbero riservato ben altro trattamento (tipo quello che sul loro giornale riservarono al commissario Calabresi)”.

Nel primo testo, un accenno all’assassinio del commissario ucciso nel 1972, con la chiara identificazione vittimistica del sindaco; nel secondo caso l’accostamento è alle critiche pubblicate su diversi quotidiani contro lo stesso commissario, pima della sua uccisione.

I rischi di una querela per diffamazione sono quindi evitati, egli deve aver pensato.

Ma la rete non perdona e le ripetute correzioni e cancellazioni del post del sindaco sono la causa di una investigazione a più mani, che porta intanto a recuperare lo screenshot del primo post, miracolosamente salvato dal labor limae del suo autore, e poi a comprendere il senso della correzione.

Che è il senso della vergogna. Il suo autore deve essersi reso conto di aver ecceduto, e che tale esagerazione avrebbe potuto portargli qualche fastidio, anche nella sua reputazione, ultimamente alquanto malmessa,  e quindi è ricorso alla variante d’autore. Ma la variatio è una prassi che andrebbe compiuta prima e non dopo la pubblicazione, perché quando si mostra pubblicamente rende evidente l’intenzione di chi scrive, in questo caso l’intenzione di diffamare senza però il rischio di finire in Tribunale. E quindi, con tanta superficialità, il sindaco ha ulteriormente incrinato la propria pencolante reputazione pubblica. Il quotidiano cittadino infine ha colto, per quanto in parte, l’affannosa opera di correzione e l’ha resa nota a un pubblico più vasto.

Un consiglio al sindaco di Cantù. Torni a usare carta e penna.

Il bene come promozione nel marketing politico

bartali

Trovo penosa la nuova prassi che emerge dal sistema comunicativo globale, e che anche a Cantù sembra trovare molti adepti: fare una buona azione, ma solo se in presenza del fotografo e magari del giornalista che celebri tanta bontà.
Possibile che non ci si renda conto che tale spocchiosa buona azione è miserella, per non dire sospetta?
Rammento quanto diceva un grande, un uomo che fu uomo non solo nello sport, Gino Bartali: “Il bene si fa, ma non si dice. E certe medaglie si appendono all’anima, non alla giacca.”

Il candidato (quasi) convinto che Rubi rubacuori fosse la nipote di Mubarak

L’onorevole Nicola Molteni, Lega Nord, è ormai ufficialmente il candidato Sindaco di quel partito per le elezioni comunali di Cantù. Figura poco esposta, tenterebbe oggi di ricostituire una presentabilità del suo partito e di se stesso davanti ai cittadini canturini, che davvero conoscono assai poco della sua attività politica e parlamentare. Giova un promemoria, giusto per capire come ha votato e quali responsabiltà si è assunto in passato.
Andiamo a ritroso nel tempo. Non sappiamo come abbia votato nell’autorizzazione all’arresto del parlamentare accusato di associazione camorrista Nicola Cosentino. Però sappiamo che ha votato contro la mozione di sfiducia contro il ministro Saverio Romano (contribuendo così a salvarlo), accusato di concorso in attività mafiose. E allo stesso modo ha contribuito a salvare dall’arresto l’onorevole Marco Milanese, accusato di associazione a delinquere, corruzione e rivelazione di segreto d’ufficio e contro la sfiducia al ministro Bondi. Ha votato a favore delle missioni militari italiane (Afghanistan, Kossovo, Libano, altre…) e ha cercato di affossare la legge contro l’omofobia. Ma ha votato contro la soppressione delle provincie, durante il governo Berlusconi. Si è dimostrato favorevole all’introduzione in Italia dell’energia nucleare; decisione che a seguito i cittadini hanno bocciato con referendum popolare. Si è dimostrato un fautore del processo breve: soprattutto breve per il presidente del Consiglio, Sivio Berlusconi, che graize a tale abbreviazione forse avrebbe potuto scansare qualche condanna. Però, visto che il processo breve da solo non sarebbe bastato, ha votato anche a favore del processo lungo, cosiddetto, con il quale allungare i tempi di durata dei dibattimenti in altri processi che interessavano il premier d’allora. La coerenza non abita da quelle parti…
Ma il miracolo politico di Molteni sta nel suo voto sul caso Ruby: egli, ispirato da certezze internazionali quanto mai fondate, ha votato contro la competenza della Procura di Milano a tale iniziativa giudiziale, dichiarando ufficialmente che la fanciulla in questione fosse la nipote del presidente egiziano Mubarak. La sua grande performance risale all’inizio della legislatura. Qui egli, con l’intero gruppo della Lega Nord, riesce a infiorettare uno dietro l’altro: la legge sul legittimo impedimento, la legge sullo scudo fiscale, la legge sul terremoto d’Abruzzo (quella pro Baldini e “cricca” di palazzinari romani…), la legge sulle quote latte (per cui oggi l’Europa multerà il nostro paese), la riforma Gelmini dell’università, la legge salva banche, il Lodo Alfano (per salvare Berlusconi, un’altra volta), la legge per l’emergenza dei rifiuti in Campania (ulteriore bell’esempio di coerenza leghista) e infine la legge per il salvataggio dell’Alitalia. Ecco come ha votato l’onorevole Molteni negli ultimi tre anni: certo, spesso per disciplina di partito, a volte per salvare il presidente del consiglio del suo governo. Saperlo può autare, per comprendere il cinismo con cui si vuole far dimenticare responsabilità recenti, i cui effetti ricadono ancora sul presente, anche dei cittadini di Cantù.

I dilemmi del centro destra comasco in vista delle elezioni comunali

Maurizio Traglio, chi era costui? Si sarà detto il militante del Pdl comasco, nel leggere le cronache cittadine, parafrasando un celebre incipit manzoniano. In effetti, per chi ha direttamente seguito il personale politico del partito che da decenni ormai domina la vita pubblica comasca, i nomi conosciuti del gruppo di comando della destra locale sono altri: Butti, Caradonna, De Santis, Sosio, D’Alessandro, Gaddi, molti ancora ma non Maurizio Traglio. Senza nulla togliere alla persona, è il profilo politico che viene a mancare, e fa apparire il partito di maggioranza della città di Como come una squadra priva di una missione definita, di una linea, di una strategia. Il che dovrebbe preoccupare tutti, sia chi nel Pdl s’identifica, e anche chi in esso non si identifica né si riconoscerà in futuro: è davvero interessante vedere il modo con cui la politica seleziona il proprio personale, se si affida a modelli di scelta trasparenti, o se consegna a luoghi più opachi il compito di individuare i propri candidati. L’Ordine, di fronte a un evidente attuale disimpegno della politica, pubblica nel numero del 4 gennaio un florilegio di brani di Ganfranco Miglio che servono proprio a rammentare al personale politico del Pdl comasco che forse non è proprio il momento di “fare un passo indietro”, spingendolo ad assumersi le proprie responsablità.
È impressionante la somiglianza della riflessione di Miglio con quella dei teorici dell’autonomia del politico degli anni 70 del secolo scorso: “La classe politica è sempre qualcosa che trova un suo punto di riferimento; borghesia, classe operaia sono soltanto classi serventi”, scriveva il politologo comasco molti anni fa. Dallo spunto di Gaetano Mosca, egli approfondiva il perché di tale autonomia, ribadendo la nozione di ceto politico come di un’élite espressione della società nel complesso, non di specifiche classi sociali. Un ragionamento che, da posizioni diverse, antitetiche direi, anche un altro formidabile studioso della politica, il francese Maurice Duverger, proponeva qualche anno prima, trattando del mascheramento del ceto politico per merito dell’assunzione di un profilo ideologico: se la lotta politica si svolge entro una cerchia non molto ampia, “tra persone avvedute”, il mascheramento è inutile: “Non è ai vecchi lupi che bisogna insegnare a urlare: si potrebbe anche paragonarli agli antichi àuguri, che non potevano guardarsi in faccia senza ridere, perché consocevano bene le loro bugie”.
Il Pdl comasco sta dimenticando questa basilare visione: come tra vecchi àuguri, viene da ridere a sentire discorsi che hanno il solo compito di dilazionare il momento di una scelta: chi sarà il candidato Sindaco che si presenterà alle imminenti elezioni? Dire, come fa il pre-candidato Traglio: io mi candido solo se vi è l’unanimità sul mio nome, è segno della massima debolezza. Significa dare a chiunque abbia un minimo di voce nel Pdl di Como un potere d’interdizione massimo. Dal lato opposto, vi sono alcuni (su tutti, l’assessore Gaddi) che indicano nelle elezioni primarie il passaggio obbligato per una selezione del miglior candidato.
Altro limite: la titubanza della dirigenza del partito verso le elezioni primarie è segno che tali elezioni non le vuole. Anzitutto perché rappresenterebbero un passaggio complesso e di difficile gestione; in secondo luogo perché le primarie potrebbe vincerle proprio Gaddi (sembra proprio il candidato ideale per tale competizione), e questo creerebbe tanti problemi proprio alla dirigenza del partito in cui lo stesso Gaddi milita. Sarei quindi propenso a ritenere che questo mezzo di selezione del personale non sarà utilizzato. E dire che le primarie risponderebbero all’assunto di Miglio per dare stabilità al sistema politico comasco: “Riducendo il numero di coloro che aspirano e lottano per il potere, si consolidano i sistemi politici”. La destra italiana le ha svalutate per una sorta di azione riflessa: le utilizza il centro sinistra, quindi non possono andare bene per noi. Invece, esse sono uno strumento neutro e la prova ci viene dagli Stati Uniti di questi giorni, con i candidati repubblicani impegnati a sfidarsi per definire il proprio miglior candidato da contrapporre a Obama.
E tuttavia, per le ragioni su esposte, Il Pdl comasco non seguirà probabilmente questo modello. Si contorcerà in una serie di azioni di dissuasione e d’interdizione, per giungere a definire (non si sa bene come) il proprio candidato. Una previsione: badiamo al fattore Tempo, è a esso che si deve far ricorso per capire quale sia il progetto con il quale pervenire alla sospirata conclusione di “consolidare il sistema politico”. Chi oggi detiene la massima responsabilità nel Pdl a Como, ha la maggior disponibilità di tempo, può permettersi quindi di dilazionare scelte e momenti decisionali. In ambito aziendale si tratta di una tecnica di gestione dei conflitti che va sotto il nome di management by exception (gestione delle emergenze, in questo caso l’emergenza riguarda il tempo). Il momento della scelta definitiva finirà a ridosso della data ultima per presentare una candidatura, a quel punto un intervento risolutivo dall’alto farà cadere la decisione sulla figura che meglio risponderà alle esigenze dell’attuale assetto di vertice del partito (l’asse politico tra il senatore Butti e l’area politica dell’attuale sindaco di Como, Bruni). Il Pdl avrà sprecato una buona occasione per agire in trasparenza se così accadesse, ma avrà certamene garantito una continuità all’attuale assetto di potere citttadino.

 


L’eclissi del “moderato”

“Moderato sarà lei!” Tra non molto, potremo forse sentire improperi di questo tipo?
Le parole, si sa, come le monete, si svalutano. Sono soggette a un’usura che le svilisce, fa perdere loro il senso e le rende inservibili. L’uso, ma soprattutto l’abuso, di una parola la rende vittima di un processo inflativo, che le sottrae capacità denotativa, direbbero gli studiosi.
Assistiamo quindi, più si smarrisce quel valore, alla ripetizione ossessiva, paranoica, del termine, tanto più debole quanto più ripetuto. Come le svalutazioni monetarie tedesca o argentina del passato, quando per pagare un caffè si doveva sborsare molto denaro, oggi per veicolare un significato ci troviamo a recitare un termine come un mantra.
Nello spostamento elettorale e politico del presente, la parola inflazionata per eccellenza è stata “moderato” (moderati, moderazione, moderare et cetera) con i lessemi del campo semantico tanto cari a una vecchia politica (che sta a destra, ma anche a sinistra, perché no?).
Sia chiaro, il presente non è un elogio della smodatezza, dell’immoderazione o dell’estremismo (“estremista”, altra espressione che non sta troppo bene). È l’invito a ripensare un termine importante (quasi un termine marcatore di una certa scuola politica), perché con esso andrebbe ripensata l’intera categoria politica cui è riferito.
Per alcuni, moderato è categoria della topografia politica. Da cui la tendenza dei berlusconiani furbi di usare la contrapposizione “centro-destra” contro “sinistra”. Come dire: noi conteniamo il centro-moderato; voi siete estremisti. Specularmente, alcuni democratici furbi usano le due categorie rovesciate: noi “centro-sinistra”, voi “destra”.
Tuttavia che il vero centro topografico dello schieramento politico italiano, il partito della Lega Nord, sia un partito moderato è cosa tutta da dimostrare…
Per altri, i moderati sono da riferirsi più a categorie sociali e non politiche. E coincidono con il ceto medio, la borghesia che sa stare bene a tavola e non va alle feste popolari dove ci si sporca le scarpe di Tods’. È un ceto per sua natura liberale, intelligente e, per l’appunto, moderato.
Quando di tali borghesi liberali si cerca di dare una definizione positiva, da sinistra li si chiama “ceto medio riflessivo”, da destra li si blandisce come “borghesia imprenditrice”, moderata appunto. Ma non dimentichiamo che da più parti, in chiave dispregiativa, quella borghesia può essere denominata “radical-chic” e “salottiera”, o bottegaia ed “evasora”…
Insomma, persino in ambito sociologico la categoria dei moderati è diventata uno strumento inservibile.
Per altri ancora il concetto di moderazione, per lo più, deve applicarsi alla dimensione psicologica.
Moderato è colui che si modera, si controlla, non offende e rispetta l’altro, anche quando è il suo avversario in politica. Sotto questo punto di vista, appare evidente che a Milano il candidato Giuliano Pisapia e il centrosinistra tutto siano apparsi moderati; Letizia Moratti e il suo centrodestra, guidati dal populismo berlusconiano e leghista, siano risultati smodati ed eccessivi.
E tuttavia, anche in quest’ultimo uso del termine permane la traccia della sua usura. Occorrerà quindi uno sforzo di fantasia nell’uso del vocabolario, per soppiantarlo e ridefinirlo.
Si prestano a una sostituzione: riflessivo, razionale, controllato, cauto, tranquillo, modesto, mite, temperato, calmo, buono, contenuto, equilibrato, stabile, corretto, ponderato, prudente, giudizioso, assennato, cauto, guardingo, ponderato, oculato, avveduto. È una lista incompleta, ma la fantasia dei politici italiani tuttavia non avrebbe limiti nell’adottare o inventare un nuovo termine per ridefinire il concetto.
Ma c’è di più, il termine viene meno perché è proprio il concetto che esso denotava ad essere andato in crisi. Non solo, il concetto va in crisi in quanto va in crisi il linguaggio entro il quale quel concetto aveva un senso.
Ora, il linguaggio, il vocabolario, persino l’ideologia che vi sottostava, e aveva bisogno vitale di questo termine, moderato, sono da decenni il risultato del pensiero berlusconiano: vitalismo, libertà intesa come licenza, fastidio delle regole. In questa ideologia, il termine moderato era usato come parola-bandiera, per indicare un ceto sociale, un ceto ideologico che doveva rispondere agli appelli all’anticomunismo del leader maximo; del tutto irrealistici, ma chiaramente decifrabili come segnali di un richiamo subliminale alla libertà da regole e controlli, l’ideologia dell’arricchirsi per intenderci…
Con quel termine, e quel linguaggio, si definiva una precisa realtà, un accordo politico tra un capo e una massa di popolo. Se viene meno questa realtà, ovvero se viene meno la fiducia tra quel capo e il suo popolo, anche il linguaggio che serve a descrivere questa realtà viene meno. Il linguaggio del potere non è più in grado di rappresentare una precisa realtà.
Quindi siamo di fronte a nuove esigenze del lessico politico, e le parole con cui tale lessico politico ha funzionato sino ad ora (a destra come a sinistra) risultano inservibili: significa che siamo a una svolta storica, vera e profonda della vita pubblica italiana.
Le elezioni di secondo turno in programma per il prossimo 29 maggio ci diranno se questo assunto è fondato o meno.

La politica italiana e la sindrome di Pinocchio

E poi si dice che la politica in Italia sia lenta e poco reattiva: le dimissioni del coordinatore nazionale del Pd, Filippo Penati, dopo il risultato deludente delle primarie di Milano, sono un segno di tempismo e di serietà che andrebbe imitata, nel centro sinistra, ai vari livelli, in primis quello regionale lombardo (ma dubito che ciò avvenga).
Troppe volte, anche nel pur serio personale politico democratico, ha prevalso la sindrome di Pinocchio. Il personaggio di Collodi rappresenta il carattere degli italiani meglio di ogni altra figura letteraria perché quando ne combina una delle sue tende a scaricare su altri le proprie responsabilità. E passi che ciò avvenga dalle parti del cavaliere di Arcore, animale politico più di ogni altro votato allo scanso delle responsabilità; ma che la sindrome del burattino abbia cominciato a prendere piede anche tra gli eredi del PCI e della DC, è un fatto che dovrebbe preoccupare tutti noi, a prescindere dalle nostre idee politiche.
Perché questo, in fin dei conti, si chiede alla forza politica del PD, soprattutto quando è all’opposizione: di essere seria, rigorosa, persino rigida e bacchettona se caso; mai clownesca e barzellettara, men che meno irresponsabile.
Quindi, il gesto di Penati, per quanto tardivo, almeno mette una toppa (che in questo caso è sempre meglio del buco) su un rammendo brutto e sgraziato, la debacle di Milano.
E come a Milano, dopo l’esito del consiglio comunale di Como di lunedì scorso, con la risibile vicenda delle dimissioni annunciate, del voto contrario, poi astensione, di alcuni consiglieri comunali della destra locale, il cui nome difficilmente entrerà nella storia per coraggio e coerenza, né per lucidità politica, la medesima sensazione di fuga dalle responsabilità coglie tutti gli spettatori per le vicende politiche nostrane.
Persino il vin brulè del giovedì precedente, graziosamente offerto dalla ditta opposizione civica in comune, contribuisce al senso di desolazione e tristezza, che coglie tutti. I supporter della giunta ciellino-pdl (in atri tempi sarebbe detta “clerical fascista”, ma allora mai sarebbe andata a finire così) restano indubbiamente con un retrogusto amaro: Bruni è salvo ma a condizione che non governi più. I “transfughi traditori” saranno ora spersi e annoiati dal mondo, né più né meno degli ignavi del terzo canto dell’Inferno (“che mai non fur vivi”). Le opposizioni ufficiali, che tanto attesero per il voto fatidico, appaiono ora come l’esercito che ha messo sotto assedio la cittadella ma ha contato esclusivamente sull’aiuto di una terza colonna al suo interno; e ora che la spallata alle mura non è andata a buon fine, che faremo?
Cercasi piano B, sarebbe da dire. E il rischio è che, alla ricerca di una strategia di riserva, a sinistra ci si balocchi con la classica coazione a ripetere (è il caso del consigliere di Rifondazione che, non riuscendo a sfiduciare il sindaco, ora vuole sfiduciare il presidente del Consiglio comunale, così, giusto per non perderci la mano) o ci si mascheri, ci si camuffi, per assomigliare quanto più è possibile all’avversario invitto: il che si traduce, inevitabilmente, nel ciclico ritorno dell’errore di fondo del nostro centro sinistra: la tentazione del mimetismo culturale, del pensare, parlare, comportarsi come il proprio avversario politico. Ne è testimone il lessico della classe politica locale (con le dovute eccezioni, sia chiaro), tutto infarcito di “territorio”, “mani in tasca degli italiani”, “sicurezza”, aziendalese, localismi e idiotismi da suburra comasca, declinazione inconsapevole e scorretta di principi pur significativi quali sussidiarietà e via così ragionando.
Dimentichi di quale sia il gesto fondativo della democrazia, il principio di parità e d’uguaglianza, ovvero la nozione di ingiustizia percepita nel mondo, ci si mimetizza: sperando che nessuno si accorga che, alla fine, è da Rousseau che tutti noi discendiamo (“se dimenticherete che i frutti sono di tutti e che la terra non è di nessuno, sarete perduti!”).
Uno spettatore disattento potrà anche restare incantato dai giochi di prestigio con i quali si intende dissimulare una appartenenza impegnativa, un’eredità nobile ma ingombrante; ma chi guardi in modo non superficiale alla nostra realtà dovrebbe interrogarsi sul perché dell’eclissi della politica riformista nel comasco: è nascosta, in attesa che altri tempi maturino; magari a medio termine.
Ma a medio termine, come ricordava l’economista John Maynard Keynes, saremo tutti scomparsi, giunta Bruni e governo Berlusconi compresi.

PD: ripensare i propri dirigenti

Una maledizione si è impossessata del Partito democratico nel nostro paese, e le elezioni primarie per la scelta del candidato sindaco di Milano riconfermano questa situazione. Ecco la faccenda: il Pd è una bella invenzione, un progetto felice, ha una forza penetrante per come è nato, per le proprie decisioni istitutive, per la propria modalità di funzionamento; e infatti in molti lo votano e continuano a votarlo, stando ai sondaggi. Eppure, gli stessi suoi elettori non si fidano della sua classe dirigente, non la ritengono adatta alla sfida del presente; tanto è vero che in Puglia si riversano sul candidato Vendola, che per due volte, a distanza di cinque anni l’una dall’altra, sconfigge il medesimo candidato ufficiale del Pd, l’onorevole Boccia, e ieri hanno preferito il candidato sostenuto dallo stesso Vendola, contro l’architetto Boeri. Ecco quindi i vari notisti politici spiegare questa situazione con i classici (e un po’ arrugginiti) strumenti dell’analisi politologica: l’elettorato del Pd che si schiera a sinistra, la vittoria dei candidati massimalisti, e così almanaccando, in uno stanco e scontato minuetto di riflessioni di impianto novecentesco.
Ma le cose non stanno propriamente a questo modo. Anzitutto il candidato vincente, Giuliano Pisapia, vince proprio nei quartieri borghesi, al centro di Milano: il che contraddice tale approccio nel vedere le cose. La stessa estrazione sociale di Pisapia è per l’appunto borghese, né più né meno di quanto lo fossero gli altri tre sfidanti.
Spiega di più, e meglio, la situazione il fatto che Pisapia fosse un politico con qualche idea in testa, e sia risultato ai più convincente e flessibile in una sfida amministrativa difficile e tuttavia possibile. Insomma, più che Pisapia a vincere, sarebbe stato il candidato ufficiale del Pd a perdere. Allora, sarebbe bello chiedersi come mai il Pd, il partito della politica manovrata e pensata più di ogni altro, si sia risolto a candidare (in ritardo, oltretutto) un signor architetto la cui esperienza politica era nulla: molto competente di urbanistica, ma per il resto ben poco.
A questo punto entrerebbe in gioco il tema della responsabilità dei gruppi dirigenti del partito, quelli provinciali e cittadini (che si sono dimessi, a quanto pare) e quelli regionali (che non si sono ancora dimessi, ed è difficile che lo faranno), ma oserei dire anche di quelli nazionali. Ed entreremmo in media re: qui è il vero problema, qui la causa della maledizione che persegue il Pd e che potrebbe portarlo, a breve, a perdere anche le primarie nazionali che potrebbero vedere Vendola contrapposto a Bersani.
La ragione sta proprio nella mancata capacità di fascinazione, nel vuoto di capacità di direzione politica che il vertice del Pd manifesta a Milano, in Italia (e anche a Como). Non c’è rischio, non c’è manifestazione di coraggio, non c’è ricerca di sfida, ma un traccheggiare ed attendere che spesso siano altri a risolvere i problemi che pure il Pd dovrebbe affrontare con maggiore risolutezza e determinazione.
A livello nazionale si attende da Fini il contributo definitivo per togliere dal campo la pesante eredità berlusconiana; a Como attendiamo che siano dei fragili e indecisi consiglieri della maggioranza di destra a far cadere la Giunta Bruni; a Milano ci si affida all’onesto professionista prestato alla politica.
Insomma, di fronte alla rinuncia ad un impegno in prima persona (la politica di tutti i tempi chiama questo concetto col nome di responsabilità), gli elettori del Pd non si fanno grandi problemi: lo votano come partito, perché è presente, è strutturato, è affidabile; ma non ritengono i suoi gruppi dirigenti all’altezza della sfida con la destra, e si affidano a politici presi da altre parrocchie.
E questo, torno a dirlo, vale a Milano come a Como: dove la politica ha lasciato il posto alla contabilità delle firme o dei voti per la mozione di sfiducia alla giunta Bruni (sia chiaro, chi scrive non sa ancora come andrà il voto nel Consiglio comunale di stasera), dove la voce dei dirigenti politici si è spenta, per lasciare il posto alle dichiarazioni d’ufficio di gruppi consiliari, regionali o parlamentari.
E dire che un patrimonio di consenso e di entusiasmo, proveniente dai votanti delle primarie dello scorso anno, avrebbe dovuto dare la carica ai dirigenti comaschi, a un esecutivo tanto vasto quanto silente (non so se di tredici o quindici persone), a esponenti legittimati a una politica tutta da giocare.
Niente, non succede niente. Aspettando Godot.

E spesso, il tanto atteso personaggio si manifesta nei panni di un politico d’importazione, come appena successo a Milano, o come accaduto in Puglia. E che magari sarebbe anche capace di vincere contro il sindaco Moratti, quanto mai in caduta nel gradimento dei cittadini di Milano.

Progetto neomonarchico del presidente Berlusconi: il nuovo re taumaturgo?

C’è un elemento insospettabile nella cultura politica che contraddistingue il circuito di potere che orbita attorno all’attuale governo italiano, e che, a dispetto della sua proclamata appartenenza alla destra populista, proviene dal cuore della contestazione sessantottina: la proclamazione del principio che il privato è politico.
Si tratta di un corto circuito che nei fatti negava allora e nega oggi il liberalismo di Locke, il liberalismo tout court, che del primato del privato sul politico, della società civile su quella politica, fa il proprio punto di partenza e d’arrivo.
Oggi, non sembri paradossale, di questa negazione del primato del privato sul politico si avvantaggia soprattutto il detentore del potere esecutivo, presidente del consiglio, padrone del partito di maggioranza relativa, proprietario e monopolista dell’informazione italiana. Sono troppe, ripetute e molteplici le tracce di tale predilezione: la commistione degli interessi privati con la politica, la cura dei messaggi culturali, il fastidio per i controlli di legittimità e costituzionali che controllano e limitano l’azione di governo, il fastidio per le istituzioni di garanzia, Corte costituzionale e Presidente della Repubblica.. In poche parole, la negazione della cultura liberale classica.
Il giusnaturalismo inglese considera la società un fatto naturale, funzionante per sé, in cui individui ragionevoli perseguono i propri legittimi interessi ed esercitano così i propri diritti naturali. Sono l’economia e l’etica, non la politica, a fondare la base sociale per l’unità degli uomini.
Per la democrazia classica, la società al contrario non è data, non è un prodotto naturale, di azioni individuali spontanee. Essa si produce per la trasformazione degli egoismi in amore verso il tutto sociale, in un patto sociale tra cittadini: quanto più distante dalla deriva berlusconiana, a ben pensare.
Vi è infine un altro pensatore, che invece sembra ben rappresentare tale deriva ed è il Thomas Hobbes (più inquietante, per altro) dell’assolutismo secentesco. La sola comunità tra individui possibile è “quella che si presenta come diritto e politica, limite e comando”. Affinché possa esistere l’etica, la scienza, la vita sociale, è indispensabile che vi sia prima l’unità politica. (Non ricorda il “nulla al di fuori dello Stato”, di più recente memoria?); si legga il De cive di Hobbes, per l’appunto: “Fuori dello stato civile, ciascuno ha una libertà del tutto completa, ma sterile, poiché chi, per la sua libertà, fa tutte le cose a suo arbitrio, per la libertà degli altri patisce tutte le cose, ad arbitrio altrui. Invece, una volta costituito lo Stato, ciascuno dei cittadini conserva tanta libertà, quanta basta per vivere bene e con tranquillità” (X,1)
Sembra di leggere tante delle riflessione che nell’inner circe berlusconiano si sono levate a tutela delle scelte autoritarie e anticostituzionali desiderate dal capo del governo.
Confrontiamo invece con quanto scrive John Locke nel Secondo trattato sul governo (VI, 90): “la monarchia assoluta… è in realtà inconciliabile con la società civile e quindi non può in assoluto essere una forma di governo civile”. Nel sovrano assoluto, scrive Locke si riassume “sia il potere legislativo sia il potere esecutivo. Non vi è dunque giudice né assise che possa con giustizia autorità e imparzialità decidere”. Sembra delineare il progetto di asservimento della magistratura al potere esecutivo accarezzato dall’attuale governo italiano.
Un potere siffatto, che cioè esorbita da organi di controllo e istituzioni di garanzia, assume un significato totalizzante, tale per cui, appunto, anche il privato diviene politico. Ne abbiamo ancor oggi molte manifestazioni esemplari. Lasciamo stare il disegno politico-giornalistico di utilizzare la vita privata degli oppositori politici al fine di infangarne il prestigio (un parlamentare di area governativa ha impunemente richiamato a tal proposito il “trattamento-Boffo”). Si consideri ad esempio l’apparentemente assurda dichiarazioni del potere che si impegna, in prima persona, per sconfiggere le malattie (“debellerò il tumore nel giro di cinque anni”), il che richiama la memoria dei celebri re taumaturghi del Medioevo. Se torniamo ad Hobbes, sempre al già citato De Cive, scopriamo il fondamento teorico che sembra reggere queste e altre, altrimenti incomprensibili, esternazioni governative. La salvezza/salute del popolo è cioè affare del principe: “Tutti i doveri di chi ha il potere sono compresi in questo solo detto: la salute del popolo è la legge suprema”. Hobbes a sua volta riprendeva, con altro scopo, un’antica massima ciceronana (dal De legibus, III, Ollis salus populi suprema lex esto, citata dalle XII tavole). Per salute, continuava più avanti Hobbes, “non si deve intendere soltanto la conservazione della vita, a qualsiasi condizione; ma una vita per quanto possibile felice”.
L’idea che il potere debba stabilire cosa sia una vita felice, come garantirla ai propri sudditi, intromettendosi nella loro sfera privata, è per l’appunto assai distante dal rispetto supremo per le autonomie sociali richiesto dal giusnaturalismo inglese. E rappresenta appunto l’idea che il privato debba essere pubblico, curato e tutelato dalla sfera politica. Sembra di leggere la dichiarazione con cui Silvio Berlusconi addolorato dichiarava: “dovevo intervenire”, riferendosi alla maratona parlamentare per imporre un decreto che interrompesse la libera scelta della famiglia Englaro di staccare dalle macchine la figlia sottoposta a inedito accanimento terapeutico. Appunto, il potere che deve intervenire in una scelta tanto privata e intima.
Insomma, sembra proprio che il De Cive sia diventato, da qualche tempo ad oggi, il manuale teorico di riferimento caro al governo italiano. Una scelta pericolosa, a ben pensarci, confermata da un’ulteriore citazione che sembra calzare, aderente e perfetta, al momento politico della destra di governo.
“Il popolo regna in ogni stato, scrive Hobbes, perché anche nelle monarchie il popolo comanda: infatti, il popolo vuole attraverso la volontà di un solo uomo […] Nella monarchia, i sudditi sono la moltitudine e (per quanto sia un paradosso) il re è il popolo”. L’identificazione del re con il popolo non è forse il modello politico con cui il Presidente del consiglio italiano ha ricercato di affermare un proprio modello di partito politico? Oltretutto, e non a caso a parere di chi scrive, ha deciso di chiamare tale partito “popolo”. Ovvero ciò che “vuole per la volontà di un solo uomo”.
La vicinanza tra la prassi politica operante nell’Italia del 2010 e la teorizzazione hobbesiana di cinquecento anni prima è sconcertante. Verrebbe da pensare, con grande preoccupazione se si è amanti della libertà, che qualcuno tra i consiglieri di palazzo stia compulsando il De Cive di Hobbes, come un manuale di buone pratiche; si gioca, a Palazzo, con un veleno che rischia di intossicarci tutti.