Il candidato (quasi) convinto che Rubi rubacuori fosse la nipote di Mubarak

L’onorevole Nicola Molteni, Lega Nord, è ormai ufficialmente il candidato Sindaco di quel partito per le elezioni comunali di Cantù. Figura poco esposta, tenterebbe oggi di ricostituire una presentabilità del suo partito e di se stesso davanti ai cittadini canturini, che davvero conoscono assai poco della sua attività politica e parlamentare. Giova un promemoria, giusto per capire come ha votato e quali responsabiltà si è assunto in passato.
Andiamo a ritroso nel tempo. Non sappiamo come abbia votato nell’autorizzazione all’arresto del parlamentare accusato di associazione camorrista Nicola Cosentino. Però sappiamo che ha votato contro la mozione di sfiducia contro il ministro Saverio Romano (contribuendo così a salvarlo), accusato di concorso in attività mafiose. E allo stesso modo ha contribuito a salvare dall’arresto l’onorevole Marco Milanese, accusato di associazione a delinquere, corruzione e rivelazione di segreto d’ufficio e contro la sfiducia al ministro Bondi. Ha votato a favore delle missioni militari italiane (Afghanistan, Kossovo, Libano, altre…) e ha cercato di affossare la legge contro l’omofobia. Ma ha votato contro la soppressione delle provincie, durante il governo Berlusconi. Si è dimostrato favorevole all’introduzione in Italia dell’energia nucleare; decisione che a seguito i cittadini hanno bocciato con referendum popolare. Si è dimostrato un fautore del processo breve: soprattutto breve per il presidente del Consiglio, Sivio Berlusconi, che graize a tale abbreviazione forse avrebbe potuto scansare qualche condanna. Però, visto che il processo breve da solo non sarebbe bastato, ha votato anche a favore del processo lungo, cosiddetto, con il quale allungare i tempi di durata dei dibattimenti in altri processi che interessavano il premier d’allora. La coerenza non abita da quelle parti…
Ma il miracolo politico di Molteni sta nel suo voto sul caso Ruby: egli, ispirato da certezze internazionali quanto mai fondate, ha votato contro la competenza della Procura di Milano a tale iniziativa giudiziale, dichiarando ufficialmente che la fanciulla in questione fosse la nipote del presidente egiziano Mubarak. La sua grande performance risale all’inizio della legislatura. Qui egli, con l’intero gruppo della Lega Nord, riesce a infiorettare uno dietro l’altro: la legge sul legittimo impedimento, la legge sullo scudo fiscale, la legge sul terremoto d’Abruzzo (quella pro Baldini e “cricca” di palazzinari romani…), la legge sulle quote latte (per cui oggi l’Europa multerà il nostro paese), la riforma Gelmini dell’università, la legge salva banche, il Lodo Alfano (per salvare Berlusconi, un’altra volta), la legge per l’emergenza dei rifiuti in Campania (ulteriore bell’esempio di coerenza leghista) e infine la legge per il salvataggio dell’Alitalia. Ecco come ha votato l’onorevole Molteni negli ultimi tre anni: certo, spesso per disciplina di partito, a volte per salvare il presidente del consiglio del suo governo. Saperlo può autare, per comprendere il cinismo con cui si vuole far dimenticare responsabilità recenti, i cui effetti ricadono ancora sul presente, anche dei cittadini di Cantù.

I dilemmi del centro destra comasco in vista delle elezioni comunali

Maurizio Traglio, chi era costui? Si sarà detto il militante del Pdl comasco, nel leggere le cronache cittadine, parafrasando un celebre incipit manzoniano. In effetti, per chi ha direttamente seguito il personale politico del partito che da decenni ormai domina la vita pubblica comasca, i nomi conosciuti del gruppo di comando della destra locale sono altri: Butti, Caradonna, De Santis, Sosio, D’Alessandro, Gaddi, molti ancora ma non Maurizio Traglio. Senza nulla togliere alla persona, è il profilo politico che viene a mancare, e fa apparire il partito di maggioranza della città di Como come una squadra priva di una missione definita, di una linea, di una strategia. Il che dovrebbe preoccupare tutti, sia chi nel Pdl s’identifica, e anche chi in esso non si identifica né si riconoscerà in futuro: è davvero interessante vedere il modo con cui la politica seleziona il proprio personale, se si affida a modelli di scelta trasparenti, o se consegna a luoghi più opachi il compito di individuare i propri candidati. L’Ordine, di fronte a un evidente attuale disimpegno della politica, pubblica nel numero del 4 gennaio un florilegio di brani di Ganfranco Miglio che servono proprio a rammentare al personale politico del Pdl comasco che forse non è proprio il momento di “fare un passo indietro”, spingendolo ad assumersi le proprie responsablità.
È impressionante la somiglianza della riflessione di Miglio con quella dei teorici dell’autonomia del politico degli anni 70 del secolo scorso: “La classe politica è sempre qualcosa che trova un suo punto di riferimento; borghesia, classe operaia sono soltanto classi serventi”, scriveva il politologo comasco molti anni fa. Dallo spunto di Gaetano Mosca, egli approfondiva il perché di tale autonomia, ribadendo la nozione di ceto politico come di un’élite espressione della società nel complesso, non di specifiche classi sociali. Un ragionamento che, da posizioni diverse, antitetiche direi, anche un altro formidabile studioso della politica, il francese Maurice Duverger, proponeva qualche anno prima, trattando del mascheramento del ceto politico per merito dell’assunzione di un profilo ideologico: se la lotta politica si svolge entro una cerchia non molto ampia, “tra persone avvedute”, il mascheramento è inutile: “Non è ai vecchi lupi che bisogna insegnare a urlare: si potrebbe anche paragonarli agli antichi àuguri, che non potevano guardarsi in faccia senza ridere, perché consocevano bene le loro bugie”.
Il Pdl comasco sta dimenticando questa basilare visione: come tra vecchi àuguri, viene da ridere a sentire discorsi che hanno il solo compito di dilazionare il momento di una scelta: chi sarà il candidato Sindaco che si presenterà alle imminenti elezioni? Dire, come fa il pre-candidato Traglio: io mi candido solo se vi è l’unanimità sul mio nome, è segno della massima debolezza. Significa dare a chiunque abbia un minimo di voce nel Pdl di Como un potere d’interdizione massimo. Dal lato opposto, vi sono alcuni (su tutti, l’assessore Gaddi) che indicano nelle elezioni primarie il passaggio obbligato per una selezione del miglior candidato.
Altro limite: la titubanza della dirigenza del partito verso le elezioni primarie è segno che tali elezioni non le vuole. Anzitutto perché rappresenterebbero un passaggio complesso e di difficile gestione; in secondo luogo perché le primarie potrebbe vincerle proprio Gaddi (sembra proprio il candidato ideale per tale competizione), e questo creerebbe tanti problemi proprio alla dirigenza del partito in cui lo stesso Gaddi milita. Sarei quindi propenso a ritenere che questo mezzo di selezione del personale non sarà utilizzato. E dire che le primarie risponderebbero all’assunto di Miglio per dare stabilità al sistema politico comasco: “Riducendo il numero di coloro che aspirano e lottano per il potere, si consolidano i sistemi politici”. La destra italiana le ha svalutate per una sorta di azione riflessa: le utilizza il centro sinistra, quindi non possono andare bene per noi. Invece, esse sono uno strumento neutro e la prova ci viene dagli Stati Uniti di questi giorni, con i candidati repubblicani impegnati a sfidarsi per definire il proprio miglior candidato da contrapporre a Obama.
E tuttavia, per le ragioni su esposte, Il Pdl comasco non seguirà probabilmente questo modello. Si contorcerà in una serie di azioni di dissuasione e d’interdizione, per giungere a definire (non si sa bene come) il proprio candidato. Una previsione: badiamo al fattore Tempo, è a esso che si deve far ricorso per capire quale sia il progetto con il quale pervenire alla sospirata conclusione di “consolidare il sistema politico”. Chi oggi detiene la massima responsabilità nel Pdl a Como, ha la maggior disponibilità di tempo, può permettersi quindi di dilazionare scelte e momenti decisionali. In ambito aziendale si tratta di una tecnica di gestione dei conflitti che va sotto il nome di management by exception (gestione delle emergenze, in questo caso l’emergenza riguarda il tempo). Il momento della scelta definitiva finirà a ridosso della data ultima per presentare una candidatura, a quel punto un intervento risolutivo dall’alto farà cadere la decisione sulla figura che meglio risponderà alle esigenze dell’attuale assetto di vertice del partito (l’asse politico tra il senatore Butti e l’area politica dell’attuale sindaco di Como, Bruni). Il Pdl avrà sprecato una buona occasione per agire in trasparenza se così accadesse, ma avrà certamene garantito una continuità all’attuale assetto di potere citttadino.

 


L’eclissi del “moderato”

“Moderato sarà lei!” Tra non molto, potremo forse sentire improperi di questo tipo?
Le parole, si sa, come le monete, si svalutano. Sono soggette a un’usura che le svilisce, fa perdere loro il senso e le rende inservibili. L’uso, ma soprattutto l’abuso, di una parola la rende vittima di un processo inflativo, che le sottrae capacità denotativa, direbbero gli studiosi.
Assistiamo quindi, più si smarrisce quel valore, alla ripetizione ossessiva, paranoica, del termine, tanto più debole quanto più ripetuto. Come le svalutazioni monetarie tedesca o argentina del passato, quando per pagare un caffè si doveva sborsare molto denaro, oggi per veicolare un significato ci troviamo a recitare un termine come un mantra.
Nello spostamento elettorale e politico del presente, la parola inflazionata per eccellenza è stata “moderato” (moderati, moderazione, moderare et cetera) con i lessemi del campo semantico tanto cari a una vecchia politica (che sta a destra, ma anche a sinistra, perché no?).
Sia chiaro, il presente non è un elogio della smodatezza, dell’immoderazione o dell’estremismo (“estremista”, altra espressione che non sta troppo bene). È l’invito a ripensare un termine importante (quasi un termine marcatore di una certa scuola politica), perché con esso andrebbe ripensata l’intera categoria politica cui è riferito.
Per alcuni, moderato è categoria della topografia politica. Da cui la tendenza dei berlusconiani furbi di usare la contrapposizione “centro-destra” contro “sinistra”. Come dire: noi conteniamo il centro-moderato; voi siete estremisti. Specularmente, alcuni democratici furbi usano le due categorie rovesciate: noi “centro-sinistra”, voi “destra”.
Tuttavia che il vero centro topografico dello schieramento politico italiano, il partito della Lega Nord, sia un partito moderato è cosa tutta da dimostrare…
Per altri, i moderati sono da riferirsi più a categorie sociali e non politiche. E coincidono con il ceto medio, la borghesia che sa stare bene a tavola e non va alle feste popolari dove ci si sporca le scarpe di Tods’. È un ceto per sua natura liberale, intelligente e, per l’appunto, moderato.
Quando di tali borghesi liberali si cerca di dare una definizione positiva, da sinistra li si chiama “ceto medio riflessivo”, da destra li si blandisce come “borghesia imprenditrice”, moderata appunto. Ma non dimentichiamo che da più parti, in chiave dispregiativa, quella borghesia può essere denominata “radical-chic” e “salottiera”, o bottegaia ed “evasora”…
Insomma, persino in ambito sociologico la categoria dei moderati è diventata uno strumento inservibile.
Per altri ancora il concetto di moderazione, per lo più, deve applicarsi alla dimensione psicologica.
Moderato è colui che si modera, si controlla, non offende e rispetta l’altro, anche quando è il suo avversario in politica. Sotto questo punto di vista, appare evidente che a Milano il candidato Giuliano Pisapia e il centrosinistra tutto siano apparsi moderati; Letizia Moratti e il suo centrodestra, guidati dal populismo berlusconiano e leghista, siano risultati smodati ed eccessivi.
E tuttavia, anche in quest’ultimo uso del termine permane la traccia della sua usura. Occorrerà quindi uno sforzo di fantasia nell’uso del vocabolario, per soppiantarlo e ridefinirlo.
Si prestano a una sostituzione: riflessivo, razionale, controllato, cauto, tranquillo, modesto, mite, temperato, calmo, buono, contenuto, equilibrato, stabile, corretto, ponderato, prudente, giudizioso, assennato, cauto, guardingo, ponderato, oculato, avveduto. È una lista incompleta, ma la fantasia dei politici italiani tuttavia non avrebbe limiti nell’adottare o inventare un nuovo termine per ridefinire il concetto.
Ma c’è di più, il termine viene meno perché è proprio il concetto che esso denotava ad essere andato in crisi. Non solo, il concetto va in crisi in quanto va in crisi il linguaggio entro il quale quel concetto aveva un senso.
Ora, il linguaggio, il vocabolario, persino l’ideologia che vi sottostava, e aveva bisogno vitale di questo termine, moderato, sono da decenni il risultato del pensiero berlusconiano: vitalismo, libertà intesa come licenza, fastidio delle regole. In questa ideologia, il termine moderato era usato come parola-bandiera, per indicare un ceto sociale, un ceto ideologico che doveva rispondere agli appelli all’anticomunismo del leader maximo; del tutto irrealistici, ma chiaramente decifrabili come segnali di un richiamo subliminale alla libertà da regole e controlli, l’ideologia dell’arricchirsi per intenderci…
Con quel termine, e quel linguaggio, si definiva una precisa realtà, un accordo politico tra un capo e una massa di popolo. Se viene meno questa realtà, ovvero se viene meno la fiducia tra quel capo e il suo popolo, anche il linguaggio che serve a descrivere questa realtà viene meno. Il linguaggio del potere non è più in grado di rappresentare una precisa realtà.
Quindi siamo di fronte a nuove esigenze del lessico politico, e le parole con cui tale lessico politico ha funzionato sino ad ora (a destra come a sinistra) risultano inservibili: significa che siamo a una svolta storica, vera e profonda della vita pubblica italiana.
Le elezioni di secondo turno in programma per il prossimo 29 maggio ci diranno se questo assunto è fondato o meno.

La politica italiana e la sindrome di Pinocchio

E poi si dice che la politica in Italia sia lenta e poco reattiva: le dimissioni del coordinatore nazionale del Pd, Filippo Penati, dopo il risultato deludente delle primarie di Milano, sono un segno di tempismo e di serietà che andrebbe imitata, nel centro sinistra, ai vari livelli, in primis quello regionale lombardo (ma dubito che ciò avvenga).
Troppe volte, anche nel pur serio personale politico democratico, ha prevalso la sindrome di Pinocchio. Il personaggio di Collodi rappresenta il carattere degli italiani meglio di ogni altra figura letteraria perché quando ne combina una delle sue tende a scaricare su altri le proprie responsabilità. E passi che ciò avvenga dalle parti del cavaliere di Arcore, animale politico più di ogni altro votato allo scanso delle responsabilità; ma che la sindrome del burattino abbia cominciato a prendere piede anche tra gli eredi del PCI e della DC, è un fatto che dovrebbe preoccupare tutti noi, a prescindere dalle nostre idee politiche.
Perché questo, in fin dei conti, si chiede alla forza politica del PD, soprattutto quando è all’opposizione: di essere seria, rigorosa, persino rigida e bacchettona se caso; mai clownesca e barzellettara, men che meno irresponsabile.
Quindi, il gesto di Penati, per quanto tardivo, almeno mette una toppa (che in questo caso è sempre meglio del buco) su un rammendo brutto e sgraziato, la debacle di Milano.
E come a Milano, dopo l’esito del consiglio comunale di Como di lunedì scorso, con la risibile vicenda delle dimissioni annunciate, del voto contrario, poi astensione, di alcuni consiglieri comunali della destra locale, il cui nome difficilmente entrerà nella storia per coraggio e coerenza, né per lucidità politica, la medesima sensazione di fuga dalle responsabilità coglie tutti gli spettatori per le vicende politiche nostrane.
Persino il vin brulè del giovedì precedente, graziosamente offerto dalla ditta opposizione civica in comune, contribuisce al senso di desolazione e tristezza, che coglie tutti. I supporter della giunta ciellino-pdl (in atri tempi sarebbe detta “clerical fascista”, ma allora mai sarebbe andata a finire così) restano indubbiamente con un retrogusto amaro: Bruni è salvo ma a condizione che non governi più. I “transfughi traditori” saranno ora spersi e annoiati dal mondo, né più né meno degli ignavi del terzo canto dell’Inferno (“che mai non fur vivi”). Le opposizioni ufficiali, che tanto attesero per il voto fatidico, appaiono ora come l’esercito che ha messo sotto assedio la cittadella ma ha contato esclusivamente sull’aiuto di una terza colonna al suo interno; e ora che la spallata alle mura non è andata a buon fine, che faremo?
Cercasi piano B, sarebbe da dire. E il rischio è che, alla ricerca di una strategia di riserva, a sinistra ci si balocchi con la classica coazione a ripetere (è il caso del consigliere di Rifondazione che, non riuscendo a sfiduciare il sindaco, ora vuole sfiduciare il presidente del Consiglio comunale, così, giusto per non perderci la mano) o ci si mascheri, ci si camuffi, per assomigliare quanto più è possibile all’avversario invitto: il che si traduce, inevitabilmente, nel ciclico ritorno dell’errore di fondo del nostro centro sinistra: la tentazione del mimetismo culturale, del pensare, parlare, comportarsi come il proprio avversario politico. Ne è testimone il lessico della classe politica locale (con le dovute eccezioni, sia chiaro), tutto infarcito di “territorio”, “mani in tasca degli italiani”, “sicurezza”, aziendalese, localismi e idiotismi da suburra comasca, declinazione inconsapevole e scorretta di principi pur significativi quali sussidiarietà e via così ragionando.
Dimentichi di quale sia il gesto fondativo della democrazia, il principio di parità e d’uguaglianza, ovvero la nozione di ingiustizia percepita nel mondo, ci si mimetizza: sperando che nessuno si accorga che, alla fine, è da Rousseau che tutti noi discendiamo (“se dimenticherete che i frutti sono di tutti e che la terra non è di nessuno, sarete perduti!”).
Uno spettatore disattento potrà anche restare incantato dai giochi di prestigio con i quali si intende dissimulare una appartenenza impegnativa, un’eredità nobile ma ingombrante; ma chi guardi in modo non superficiale alla nostra realtà dovrebbe interrogarsi sul perché dell’eclissi della politica riformista nel comasco: è nascosta, in attesa che altri tempi maturino; magari a medio termine.
Ma a medio termine, come ricordava l’economista John Maynard Keynes, saremo tutti scomparsi, giunta Bruni e governo Berlusconi compresi.

PD: ripensare i propri dirigenti

Una maledizione si è impossessata del Partito democratico nel nostro paese, e le elezioni primarie per la scelta del candidato sindaco di Milano riconfermano questa situazione. Ecco la faccenda: il Pd è una bella invenzione, un progetto felice, ha una forza penetrante per come è nato, per le proprie decisioni istitutive, per la propria modalità di funzionamento; e infatti in molti lo votano e continuano a votarlo, stando ai sondaggi. Eppure, gli stessi suoi elettori non si fidano della sua classe dirigente, non la ritengono adatta alla sfida del presente; tanto è vero che in Puglia si riversano sul candidato Vendola, che per due volte, a distanza di cinque anni l’una dall’altra, sconfigge il medesimo candidato ufficiale del Pd, l’onorevole Boccia, e ieri hanno preferito il candidato sostenuto dallo stesso Vendola, contro l’architetto Boeri. Ecco quindi i vari notisti politici spiegare questa situazione con i classici (e un po’ arrugginiti) strumenti dell’analisi politologica: l’elettorato del Pd che si schiera a sinistra, la vittoria dei candidati massimalisti, e così almanaccando, in uno stanco e scontato minuetto di riflessioni di impianto novecentesco.
Ma le cose non stanno propriamente a questo modo. Anzitutto il candidato vincente, Giuliano Pisapia, vince proprio nei quartieri borghesi, al centro di Milano: il che contraddice tale approccio nel vedere le cose. La stessa estrazione sociale di Pisapia è per l’appunto borghese, né più né meno di quanto lo fossero gli altri tre sfidanti.
Spiega di più, e meglio, la situazione il fatto che Pisapia fosse un politico con qualche idea in testa, e sia risultato ai più convincente e flessibile in una sfida amministrativa difficile e tuttavia possibile. Insomma, più che Pisapia a vincere, sarebbe stato il candidato ufficiale del Pd a perdere. Allora, sarebbe bello chiedersi come mai il Pd, il partito della politica manovrata e pensata più di ogni altro, si sia risolto a candidare (in ritardo, oltretutto) un signor architetto la cui esperienza politica era nulla: molto competente di urbanistica, ma per il resto ben poco.
A questo punto entrerebbe in gioco il tema della responsabilità dei gruppi dirigenti del partito, quelli provinciali e cittadini (che si sono dimessi, a quanto pare) e quelli regionali (che non si sono ancora dimessi, ed è difficile che lo faranno), ma oserei dire anche di quelli nazionali. Ed entreremmo in media re: qui è il vero problema, qui la causa della maledizione che persegue il Pd e che potrebbe portarlo, a breve, a perdere anche le primarie nazionali che potrebbero vedere Vendola contrapposto a Bersani.
La ragione sta proprio nella mancata capacità di fascinazione, nel vuoto di capacità di direzione politica che il vertice del Pd manifesta a Milano, in Italia (e anche a Como). Non c’è rischio, non c’è manifestazione di coraggio, non c’è ricerca di sfida, ma un traccheggiare ed attendere che spesso siano altri a risolvere i problemi che pure il Pd dovrebbe affrontare con maggiore risolutezza e determinazione.
A livello nazionale si attende da Fini il contributo definitivo per togliere dal campo la pesante eredità berlusconiana; a Como attendiamo che siano dei fragili e indecisi consiglieri della maggioranza di destra a far cadere la Giunta Bruni; a Milano ci si affida all’onesto professionista prestato alla politica.
Insomma, di fronte alla rinuncia ad un impegno in prima persona (la politica di tutti i tempi chiama questo concetto col nome di responsabilità), gli elettori del Pd non si fanno grandi problemi: lo votano come partito, perché è presente, è strutturato, è affidabile; ma non ritengono i suoi gruppi dirigenti all’altezza della sfida con la destra, e si affidano a politici presi da altre parrocchie.
E questo, torno a dirlo, vale a Milano come a Como: dove la politica ha lasciato il posto alla contabilità delle firme o dei voti per la mozione di sfiducia alla giunta Bruni (sia chiaro, chi scrive non sa ancora come andrà il voto nel Consiglio comunale di stasera), dove la voce dei dirigenti politici si è spenta, per lasciare il posto alle dichiarazioni d’ufficio di gruppi consiliari, regionali o parlamentari.
E dire che un patrimonio di consenso e di entusiasmo, proveniente dai votanti delle primarie dello scorso anno, avrebbe dovuto dare la carica ai dirigenti comaschi, a un esecutivo tanto vasto quanto silente (non so se di tredici o quindici persone), a esponenti legittimati a una politica tutta da giocare.
Niente, non succede niente. Aspettando Godot.

E spesso, il tanto atteso personaggio si manifesta nei panni di un politico d’importazione, come appena successo a Milano, o come accaduto in Puglia. E che magari sarebbe anche capace di vincere contro il sindaco Moratti, quanto mai in caduta nel gradimento dei cittadini di Milano.

Progetto neomonarchico del presidente Berlusconi: il nuovo re taumaturgo?

C’è un elemento insospettabile nella cultura politica che contraddistingue il circuito di potere che orbita attorno all’attuale governo italiano, e che, a dispetto della sua proclamata appartenenza alla destra populista, proviene dal cuore della contestazione sessantottina: la proclamazione del principio che il privato è politico.
Si tratta di un corto circuito che nei fatti negava allora e nega oggi il liberalismo di Locke, il liberalismo tout court, che del primato del privato sul politico, della società civile su quella politica, fa il proprio punto di partenza e d’arrivo.
Oggi, non sembri paradossale, di questa negazione del primato del privato sul politico si avvantaggia soprattutto il detentore del potere esecutivo, presidente del consiglio, padrone del partito di maggioranza relativa, proprietario e monopolista dell’informazione italiana. Sono troppe, ripetute e molteplici le tracce di tale predilezione: la commistione degli interessi privati con la politica, la cura dei messaggi culturali, il fastidio per i controlli di legittimità e costituzionali che controllano e limitano l’azione di governo, il fastidio per le istituzioni di garanzia, Corte costituzionale e Presidente della Repubblica.. In poche parole, la negazione della cultura liberale classica.
Il giusnaturalismo inglese considera la società un fatto naturale, funzionante per sé, in cui individui ragionevoli perseguono i propri legittimi interessi ed esercitano così i propri diritti naturali. Sono l’economia e l’etica, non la politica, a fondare la base sociale per l’unità degli uomini.
Per la democrazia classica, la società al contrario non è data, non è un prodotto naturale, di azioni individuali spontanee. Essa si produce per la trasformazione degli egoismi in amore verso il tutto sociale, in un patto sociale tra cittadini: quanto più distante dalla deriva berlusconiana, a ben pensare.
Vi è infine un altro pensatore, che invece sembra ben rappresentare tale deriva ed è il Thomas Hobbes (più inquietante, per altro) dell’assolutismo secentesco. La sola comunità tra individui possibile è “quella che si presenta come diritto e politica, limite e comando”. Affinché possa esistere l’etica, la scienza, la vita sociale, è indispensabile che vi sia prima l’unità politica. (Non ricorda il “nulla al di fuori dello Stato”, di più recente memoria?); si legga il De cive di Hobbes, per l’appunto: “Fuori dello stato civile, ciascuno ha una libertà del tutto completa, ma sterile, poiché chi, per la sua libertà, fa tutte le cose a suo arbitrio, per la libertà degli altri patisce tutte le cose, ad arbitrio altrui. Invece, una volta costituito lo Stato, ciascuno dei cittadini conserva tanta libertà, quanta basta per vivere bene e con tranquillità” (X,1)
Sembra di leggere tante delle riflessione che nell’inner circe berlusconiano si sono levate a tutela delle scelte autoritarie e anticostituzionali desiderate dal capo del governo.
Confrontiamo invece con quanto scrive John Locke nel Secondo trattato sul governo (VI, 90): “la monarchia assoluta… è in realtà inconciliabile con la società civile e quindi non può in assoluto essere una forma di governo civile”. Nel sovrano assoluto, scrive Locke si riassume “sia il potere legislativo sia il potere esecutivo. Non vi è dunque giudice né assise che possa con giustizia autorità e imparzialità decidere”. Sembra delineare il progetto di asservimento della magistratura al potere esecutivo accarezzato dall’attuale governo italiano.
Un potere siffatto, che cioè esorbita da organi di controllo e istituzioni di garanzia, assume un significato totalizzante, tale per cui, appunto, anche il privato diviene politico. Ne abbiamo ancor oggi molte manifestazioni esemplari. Lasciamo stare il disegno politico-giornalistico di utilizzare la vita privata degli oppositori politici al fine di infangarne il prestigio (un parlamentare di area governativa ha impunemente richiamato a tal proposito il “trattamento-Boffo”). Si consideri ad esempio l’apparentemente assurda dichiarazioni del potere che si impegna, in prima persona, per sconfiggere le malattie (“debellerò il tumore nel giro di cinque anni”), il che richiama la memoria dei celebri re taumaturghi del Medioevo. Se torniamo ad Hobbes, sempre al già citato De Cive, scopriamo il fondamento teorico che sembra reggere queste e altre, altrimenti incomprensibili, esternazioni governative. La salvezza/salute del popolo è cioè affare del principe: “Tutti i doveri di chi ha il potere sono compresi in questo solo detto: la salute del popolo è la legge suprema”. Hobbes a sua volta riprendeva, con altro scopo, un’antica massima ciceronana (dal De legibus, III, Ollis salus populi suprema lex esto, citata dalle XII tavole). Per salute, continuava più avanti Hobbes, “non si deve intendere soltanto la conservazione della vita, a qualsiasi condizione; ma una vita per quanto possibile felice”.
L’idea che il potere debba stabilire cosa sia una vita felice, come garantirla ai propri sudditi, intromettendosi nella loro sfera privata, è per l’appunto assai distante dal rispetto supremo per le autonomie sociali richiesto dal giusnaturalismo inglese. E rappresenta appunto l’idea che il privato debba essere pubblico, curato e tutelato dalla sfera politica. Sembra di leggere la dichiarazione con cui Silvio Berlusconi addolorato dichiarava: “dovevo intervenire”, riferendosi alla maratona parlamentare per imporre un decreto che interrompesse la libera scelta della famiglia Englaro di staccare dalle macchine la figlia sottoposta a inedito accanimento terapeutico. Appunto, il potere che deve intervenire in una scelta tanto privata e intima.
Insomma, sembra proprio che il De Cive sia diventato, da qualche tempo ad oggi, il manuale teorico di riferimento caro al governo italiano. Una scelta pericolosa, a ben pensarci, confermata da un’ulteriore citazione che sembra calzare, aderente e perfetta, al momento politico della destra di governo.
“Il popolo regna in ogni stato, scrive Hobbes, perché anche nelle monarchie il popolo comanda: infatti, il popolo vuole attraverso la volontà di un solo uomo […] Nella monarchia, i sudditi sono la moltitudine e (per quanto sia un paradosso) il re è il popolo”. L’identificazione del re con il popolo non è forse il modello politico con cui il Presidente del consiglio italiano ha ricercato di affermare un proprio modello di partito politico? Oltretutto, e non a caso a parere di chi scrive, ha deciso di chiamare tale partito “popolo”. Ovvero ciò che “vuole per la volontà di un solo uomo”.
La vicinanza tra la prassi politica operante nell’Italia del 2010 e la teorizzazione hobbesiana di cinquecento anni prima è sconcertante. Verrebbe da pensare, con grande preoccupazione se si è amanti della libertà, che qualcuno tra i consiglieri di palazzo stia compulsando il De Cive di Hobbes, come un manuale di buone pratiche; si gioca, a Palazzo, con un veleno che rischia di intossicarci tutti.

Como: la prova del fallimento della riforma Brunetta

Povera Como: ha perduto la cultura della laboriosità, dell’etica del lavoro dei grandi magnati della sua industria del Novecento, ed è oggi fagocitata nel mainstream di un’Italia in cui s’è completata l’ascesa della linea della palma di cui scriveva Leonardo Sciascia nel “Giorno della civetta”.
Avrebbe dovuto, Como, dettare i comportamenti etici d’un civicness d’impianto nordico, e si trova invece a premiare dirigenti pubblici cui va ascritto il grande risultato di gestione dell’edificazione e del successivo abbattimento del muro a lago. È il fallimento d’una cultura dell’etica pubblica che ci fa precipitare, a pieno titolo e a buon diritto, nell’Italia dei paradossi: l’Italia che s’è data un’ideologia dominante che si proclama liberale, ma è affidata al principale monopolista dell’informazione televisiva; che si affida a norme molto limitative della libertà d’ingresso nel nostro paese, ma poi la cosiddetta legge Bossi-Fini che tale risultato dovrebbe garantire realizza le più grandi sanatorie e regolarizzazioni di immigrati clandestini della storia patria; che si proclama artefice d’un radicale progetto di trasformazione in senso federale dello stato, ma poi abolisce l’ICI, lasciando i comuni in braghe di tela; e non paga, li vincola a un patto di stabilità che impedisce loro di investire in opere pubbliche di utilità collettiva.
È la medesima Italia che attende ora gli effetti della “riforma Brunetta”, mirata all’”ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e alla efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni”; una riforma che, da una parte politica come all’altra, andrebbe letta e meditata, prima di precipitarsi in lodi o critiche, il più delle volte infondate (tanto le une quanto le altre).
Strano paese, in cui una sinistra politica e sindacale dovrebbe salutare tale riforma come un proprio risultato politico, e che invece l’ha contrastata, contribuendo a svuotarla di senso e di una cultura che ne rappresenti la patria potestà.
La legge delega con cui il Parlamento dava mandato al Governo di sviluppare un decreto che riformasse la pubblica amministrazione prende il numero 15 delle leggi licenziate nel 2009. Essa affermava, tra le tante cose, molti principi interessanti. Anzitutto quello di “affermazione del principio di concorsualità per l’accesso al lavoro pubblico e per le progressioni di carriera”. Un principio quanto mai disatteso, da tante amministrazioni, ma da nessuna mai quanto dall’attuale governo nazionale. Si pensi al fatto che, proprio per non danneggiare la propensione dell’attuale inquilino di Palazzo Chigi a contraddire tale principio legittimo, il successivo decreto delegato, il decreto legislativo 150 del 2009, la vera e propria riforma, ha dovuto stralciare l’applicazione dei principi riformatori proprio al personale della presidenza del Consiglio: è tutto dire.
La legge delega propone, in ossequio a una cultura del merito e del premio per il merito, di avviare sistemi di misurazione e di valutazione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni. Il che significa responsabilizzare i dirigenti affinché motivino meriti e premi, anche economici, evitando però il sistema dei premi a pioggia: chi ha avuto il coraggio, sin qui, di differenziare davvero i meritevoli da chi meritevole non è? Per evitare l’uso indifferenziato dei premi economici, s’è imposto per legge il criterio di fissare tre fasce di merito per i dipendenti: alta (25 % dei dipendenti cui va assegnato il 50% delle risorse destinate al trattamento accessorio collegato ai risultati individuali), media (un 50 % di dipendenti cui andrà il restante 50% del trattamento accessorio) e bassa, cui non andranno risorse.
Perché dovrebbe essere salutato favorevolmente questo modello, soprattutto da chi ha a cuore i diritti dei lavoratori? Perché sottrae discrezionalità ai dirigenti e soprattutto li responsabilizza (ogni scelta, premiale o meno, va motivata e argomentata).
A questi passaggi, si aggiunge una cura per la trasparenza dei comportamenti amministrativi che davvero non sembra abitare più nei palazzi pubblici della nostra provincia (un esempio: si pensi alla gestione “a porte chiuse” dell’intera partita urbanistica scelta dalla giunta leghista di Cantù; ma come, un partito che rivendica coraggio e onestà si trova poi a operare come una normale giunta dell’Italietta “casalese” tanto criticata?!).
E infine, veniamo all’aspetto tanto vicino a noi. La legge delega detta: l’amministrazione di un comune dovrebbe “prevedere che i sindaci … nominino i componenti dei nuclei di valutazione cui è affidato il compito di effettuare la valutazione dei dirigenti…, e che provvedano a confermare o revocare gli incarichi dirigenziali conformemente all’esito della valutazione”.
Secondo voi, al momento di stabilire i premi produttivi del personale, gli amministratori, che hanno premiato i dirigenti tanto encomiabili di cui sopra, si saranno affidati a criteri di valutazione della redditività del loro operato?
La riforma che porta il nome del ministro Brunetta quindi andrebbe salutata come un successo per la cultura riformista, quella che mira alla parità delle opportunità, anche se lo stesso Brunetta ha dovuto in corso d’opera, al passaggio tra legge delega e decreto delegato operare alcune correzioni, alcuni cedimenti alle logiche del sistema. Di uno s’è detto, riguarda il personale della Presidenza del consiglio dei ministri. Vediamo gli altri: anzitutto, ha abbandonato l’idea di costituire un’autorità di valutazione neutrale per il personale degli uffici dello Stato, del tipo di un’autorità indipendente. Ora si fa riferimento a una Commissione ministeriale. La differenza non è secondaria: si pensi che qualcosa del genere esiste già, è il Comitato tecnico-consultivo presso la Presidenza del consiglio, ed è presieduto (udite, udite!) dall’ex ministro del Bilancio Paolo Cirino Pomicino, una sorta di “mister Deficit”.
Ultimo caduta, la scomparsa, per ora, della possibilità di accedere alla “class action”, ovvero all’azione giudiziaria collettiva contro la pubblica amministrazione, cui la legge delega dava spazio, al contrario del suo decreto delegato successivo.
La class action, l’azione collettiva, possono al più realizzarsela in proprio, ciascuno a suo modo, i comitati di cittadini che non gradiscono più certe scelte politiche o certi comportamenti amministrativi, il più della volte con azioni di polemica pubblica del tipo di quelli che sono nati contro il muro a lago poco prima costruito e poi abbattuto dal Comune di Como.

Ma, domandano giustamente i cittadini: quando ci sarà la possibilità di indicare le responsabilità delle cattive gestioni, o di premiare giustamente dirigenti che meritano e che non appaiono nel palmares dei preferiti dalla classe politica locale?

Manuale minimo di cambiamento

Se ne parlava già da tempo, ma sembra che durante il governo della signora Thatcher in Gran Bretagna fosse tornato di moda un famoso adagio, che, a parti rovesciate, potrebbe valere anche per la Como dei giorni nostri: i conservatori hanno realizzato una rivoluzione che non volevano; i rivoluzionari non possono riconoscere che i conservatori abbiano fatto una rivoluzione: da entrambe le parti lo sconcerto e il disorientamento regnano sovrani.
Quella frase disegnava una realtà storica paradossale, ma vera; e soprattutto descriveva una certezza: la Gran Bretagna stava vigorosamente cambiando negli anni ’80, e cambiò molto infatti. A Como, potremmo dirla così: gli innovatori che si proponevano grandi cambiamenti, non hanno cambiato nulla; i conservatori, indispettiti, masticano amaro: avrebbero voluto essere loro a non cambiare alcunché.
Altra certezza, altrettanto vera: da venti anni la provincia di Como, i suoi principali comuni: Como e Cantù, per non parlare della Regione Lombardia, sono saldamente nelle mani di chi (Lega Nord anzitutto) disegna grandi mutamenti istituzionali e politici: il sistema si perpetua invece, graniticamente; cambia sì qualcosa, ma perché nulla cambi. Dall’altra parte, chi avrebbe da guadagnare nel denunciare questo falso cambiamento, non si muove: tanta staticità rappresenterebbe la condizione migliore per una forza politica che farebbe di tutto pur di conquistare finalmente il potere in Lombardia e a Como. Ma niente.
Non succede niente.
Forse sarebbe tanto interessante proporre alla classe politica e dirigenziale in senso lato, all’establishment allargato: sindacale, imprenditoriale, finanziario, professionale, e così via, un vademecum al cambiamento, così, giusto per non perdere confidenza con il concetto; un concetto tanto vagheggiato, poco praticato.
Chi oserebbe oggi negare che viviamo in un momento di grande cambiamento? Non è una frase rituale. In un certo senso, in ogni momento storico accade un qualche cambiamento, ma oggi, e qui, nella fascia pedemontana dall’Italia del Nord, si può ragionare di tale concetto con più pertinenza che altrove.
Il concetto di cambiamento è all’apparenza intuitivo; e quindi si pensa che basti comprendere che c’è per poterlo governare. Errore, errore gravissimo, che la nostra classe dirigente locale ha costantemente praticato. Il concetto di cambiamento non si accorda tanto facilmente con quello di management (inteso in senso banale, non nella sua valenza tecnico-professionale), ma trova maggior rispondenza in quello di leadership (l. diffusa, non dell’unico leader, capo carismatico di tipo peronista…). La metafora è quella dell’esercito: quando un esercito è in pace, lo si affida a dei manager (che sappiano gestire bene l’ordinario, pagare la truppa, far quadrare i bilanci, tenere in ordine gli effettivi); quando un esercito è in guerra lo si affida a dei leader, meglio a una leadership diffusa, che lo guidi e lo motivi. La nostra classe dirigente locale, a destra come a sinistra, è cresciuta nel mito del management (il buon manager, la managerialità, e via declinando), è evidente che oggi risulti inadeguata: ci troviamo infatti in una situazione di grande “conflitto”, di movimento spinto, di tensione sociale. Così, continuando a pronunciare il mantra del management anglosassone: “innovate or die”, il nostro establishment locale ha dissipato credito, tempo e risorse, nonché credibilità, per realizzare quasi nulla.
Due esempi locali, localissimi. Il primo a Cantù: un’amministrazione di destra a traino leghista (sindaco Tiziana Sala) ha deciso di provare l’assalto alla locale Cassa rurale. Si direbbe: con il consenso bulgaro appena conquistato alle elezioni regionali, ogni cosa sarebbe stata facile. Ma no: l’assalto alla cassaforte locale da parte dei politici cittadini si risolve in un flop: il 13 % dei voti dei soci della cooperativa danno credito a quel tentativo di “rinnovamento” (ricordiamoci: “innovate or die”). Cos’è: i canturini si sono tutti convertiti in un mese e hanno rinnegato il loro recente voto? No, semplicemente hanno capito che non hanno a che fare con una classe dirigente vera, una leadership diffusa, ma a qualcuno cui affidare, purché non sia rotto dopo cinque anni, il giocattolo dell’amministrazione comunale. Dei manager, non dei leader: e dei manager neppure troppo colti in cultura del management.
Ben più ferrati dei canturini in cultura manageriale, gli amministratori comaschi: a destra e a sinistra, sono guidati da dottori commercialisti. Verrebbe da dire: andrà meglio sulle rive del lago. E invece no. Una giunta comasca più sciaguattata di quella guidata dal sindaco Bruni non s’era mai vista. Paralizzata, incapace di decidere niente, non ha saputo cambiare proprio nulla. Spendere qualche euro, sì. Ma la sfiducia dei cittadini in questa classe dirigente è oggi palpabile ed evidente. Paratie a lago docent.
Eppure le cosa cambiano. E il loro cambiare è una sfida “mortale” (questa sì) per l’intera comunità locale. In tale cambiamento, non sappiamo altro che usare alcune parole che valgono per noi come esorcismi. La prima è la parola “riforma”: è diventata un imperativo globale. Nel lessico politico è ormai un passe partout. Ma cosa riformare? E poi, a cosa serve la riforma se non si accompagna a una cultura riformista? La seconda parola è “sviluppo tecnologico”: non sempre le riforme riescono a interpretare i cambiamenti delle tecnologie, che comunque proseguono a prescindere dall’azione dei politici. Addirittura, alcuni sociologi (E. Hoyle e M. Fallace, Londra 2005) hanno coniato il termine di “ironia delle riforme”: si tratta di quelle iniziative legislative che a volte hanno esiti opposti a quelli dichiarati. Si pensi al tentativo dei nostri amministratori di sottoporre le città al controllo totale: ovunque telecamere; poi però le telecamere si guastano e non ci sono i soldi per ripararle; non c’è personale da mettere dietro a quelle telecamere, e la spesa quindi si rivela inutile; oppure, si pensi alla legge Bossi-Fini che avrebbe dovuto bloccare l’immigrazione clandestina, ma si è risolta alla fine nel realizzare la più grande regolarizzazione di immigrati clandestini in Italia: un milione in pochi anni!
Pertanto, prima regola per chi voglia misurarsi con il cambiamento: anzitutto procedere nell’esame delle “conseguenze inattese”. Serve per misurare il successo delle riforme rispetto agli obiettivi che si prefiggevano. Una conseguenza di questo obiettivo, che però non è stata sufficientemente considerata, tanto che non la si riesce a praticare, è che esso prevederebbe una completa ridefinizione del modello amministrativo che oggi prevale nel nostro sistema politico. Per scrivere riforme o ordinanze innovative basta un po’ di fantasia, un dirigente che pratichi il diritto amministrativo, e spesso un po’ di faccia tosta (si pensi al numero verde per la denuncia dei clandestini a Cantù, ad esempio…). Ma per misurare l’insieme delle conseguenze inattese, occorre molto di più: capacità d’ascolto, sedi di confronto largo e allargato, intelligenza prospettica. Una serie di facoltà che difettano tra i nostri politici e nell’insieme della classe dirigente locale intesa senso latu.
A seguire, ecco la seconda regola del manuale minimo del cambiamento. Se volete misurarvi con esso, cercate un “modello di gestione del cambiamento”. Si tratta di costruire un approccio al cambiamento, che esisterebbe a prescindere dal fatto che una società decida o meno di misurarsi con esso. In altri termini, si tratta di comprendere le dinamiche che nascono dall’incontro tra idee globali e tradizioni storiche e culturali del nostro contesto. Non che in passato non ci si sia misurati con l’arrivo delle idee nuove: c’è stata la fase dell’”efficacia interna”, quando si pianificava un lavoro politico sulla base di obiettivi politici accettati e condivisi. Qui serviva una politica manageriale (e paradossalmente è stata la fase in cui le forze politiche di centro sinistra hanno dato il meglio di sé). Poi è stata la volta dell’”efficacia esterna”: ci si rende conto che una buona politica non deve solo limitarsi ai suoi processi interni, ma deve considerare i portatori di interessi che le sono esterni, la società complessivamente intesa (in questa fase si comincia a parlare di stakeholders; tra parentesi, a sinistra, nella nostra zona, non se ne sono ancora accorti). A questa fase inizia ad associarsi una riduzione delle risorse finanziarie del sistema sociale messe a disposizione della politica. Si punta quindi su una superiore qualità della politica, ma i risultati a quanto pare non sono all’altezza: come conciliare questi obiettivi, di cui pure le amministrazioni di destra della nostra provincia avevano assunto l’onere, con i risultati ottenuti? I costi della politica, che avrebbero dovuto abbattere, sono aumentati. La privatizzazione dei servizi è avvenuta, certo, ma in un contesto di mancata liberalizzazione, per cui oggi abbiamo servizi esercitati in modo privatistico, ma in un regime di monopolio. Oltre al danno, la beffa (i servizi costano troppo).
La sfida lanciata alla politica a fine secolo scorso (a Como esercitata dalla sola destra, dato che l’altra parte è rimasta sostanzialmente marginalizzata), sfida di misurarsi con l’insieme dei portatori di interessi, è oggi sostanzialmente irrisolta: la nostra classe dirigente è stata inadeguata a questi compiti, soprattutto per difficoltà relazionali. E già si prefigura una terza fase, quella dell’”efficacia futura” (ne parla un sociologo cinese, Y.C. Cheng, di Honk Kong, 2000). Si fonda su questa domanda: “la qualità di oggi… è in grado di produrre effetti abbastanza duraturi da mettere le nuove generazioni in condizione di fronteggiare le sfide del nuovo millennio?”.
Ma questo è un tema davvero improbo per la nostra classe dirigente locale. A qualsiasi condizione si rifaccia, in qualsiasi parte politica si produca, siamo di fronte a una generazione di dirigenti politici, sindacali, manager, professionisti e così via, che a malapena si pongono i problemi dell’oggi; come faranno mai a porsi i temi del domani? Torniamo a Como: come farà la giunta Bruni, con quale energie psichiche e quali risorse culturali, a progettare interventi che vadano al di là della prossima seduta del consiglio comunale? O della imminente esondazione del lago?
Per non dire della classe dirigente provinciale, politici in testa, con la Lega di Carioni sopra tutti: esiste ancora? Ha qualcosa da dire? Dovremo evocarla in qualche seduta spiritica?
E qui abbiamo la terza regola del manuale minimo del cambiamento. Alla classe politica locale necessiterebbe, sopra di tutto, molto, molto studio. Dovrebbero tornare tra i banchi: consiglieri, assessori e dirigenti pubblici; ma anche sindacalisti, manager, professionisti e così via. Vi sono studi sociologici, statistici, tecnologici, scientifici, nuove teorie politiche da conoscere, comprendere e meditare, cercando di coniugarli alla nostra specificità territoriale: li studino!
Alternativa: continuare così, non muoversi, subire passivamente i cambiamenti che il mondo ci imporrà; tanto, a consolarci, ci sarà sempre un George Clooney che prenda casa a Blevio e ci confermi che il lago, dopotutto, è proprio un bel posto in cui vivere.

Manuale del cambiamento / 2

Il premio Nobel per la letteratura del 2009, la scrittrice rumeno-tedesca Herta Müller, ha scritto della sua attività letteraria: “Cerco sempre di immaginarmi ai margini dell’avvenimento che sto osservando”. Non è solo una scelta di rispetto per la realtà, ma un modo di guardare al mondo: cercare il nuovo non nel centro focale del nostro campo visivo, ma in limine. È lì, ai margini del nostro sguardo, che possiamo trovare l’inaspettato, un continente nuovo…
Il cambiamento è tornato a far riflettere. A parte gli interventi sulla stampa, lo si impone ad esempio nell’intento dichiarato per il progetto Comonext, di cui la stampa ha raccontato nei giorni passati.
Sembra però che il nostro establishment locale sia intenzionato a fissare, anche in questo ultimo caso, come sempre fatto sin qui, bene al centro del proprio campo visivo: ai margini, non è data speranza. D’altra parte, come non comprendere l’ansia di un povero amministratore, un manager pubblico o privato, un capitano o un caporale d’industria che di fronte al panico di una crisi perfetta si ingegni a misurarsi con i livelli liminari della propria attività? Di fronte alla paura, chi se la sente di affrontare il cambiamento?
Il fatto vero è che il cambiamento si impone contemporaneamente su dimensioni non omogenee: avviene localmente, globalmente e individualmente. A tutte e tre queste dimensioni occorre dare risposte. Dimenticarne una, significa far patire al cambiamento l’imperfezione ironica della storia.
Ad esempio, pensare di beneficiare del cambiamento che avviene a livello globale, e nella formazione individuale, ma poi rifuggire l’ipotesi che il cambiamento si manifesti anche a livello locale è il difetto di fabbrica del pensiero leghista. Pensare che debbano cambiare i modelli locali e globali ma poi immaginare che nulla accada a livello individuale è altra deformazione del modello reazionario che non è disponibile ad accettare che i diritti individuali possano progredire.
Le tre prospettive del cambiamento devono muoversi assieme, quindi, integrate tra loro.
Occorre, quindi, osservare con cura il cambiamento, in formazione, per comprendere come funziona realmente.
Un sociologo canadese, Michael Fullan, nel saggio New Meaning of Educational Change (2001), ne definisce alcuni aspetti: le tipologie del cambiamento (come inizia il cambiamento?); le componenti e i livelli del cambiamento; i fattori chiave nella realizzazione del cambiamento.
Nel concreto: l’origine di una innovazioni può avere diverse fonti e motivazioni. Alcune scelte sono adottate per motivi di opportunità formale, di convenienza, di prestigio, e differiscono da quanto viene realizzato davvero. A volte si adottano cambiamenti che hanno solo valore simbolico, non un valore reale. Noi italiani siamo dei maestri a riguardo. Da quanti anni l’attuale classe dirigente nazionale ci ha promesso una rivoluzione liberale? Sedici? Dalla famosa “discesa in campo” del 1994? Ma siamo sicuri che mai ci arriverà il tanto agognato paradiso dei liberali? Siamo ancora in attesa che la promessa si realizzi! A volte nel cambiamento si nascondono ragioni di sopravvivenza politica o burocratica. Si pensi al modo con cui, a vario titolo, e da varie provenienze politiche, un’intera classe dirigente (a sinistra come a destra) si sia adattata a mutamenti di tipo gattopardesco, pur di salvare il grosso del proprio corpaccione burocratico. Si possono definire questi mutamenti di casacca come un profondo e sincero cambiamento politico? quando riti, deformazioni concettuali, tic e virtù dei vecchi corpi politici si sono riprodotti nel presente?
Nel complesso, il cambiamento ha molteplici dimensioni, che agiscono (possono agire) insieme: nuovi materiali e strumenti tecnologici; nuove teorie politiche; le trasformazioni culturali (profonde) della società. Può accadere che una classe dirigente adoperi nuovi strumenti e tecnologie innovative, senza modificare niente della politica o dei valori culturali profondi. Oppure, può accadere che si miri a cambiamenti di politica e di tecniche ma non si voglia mettere in discussione i valori culturali profondi. Quando una riforma incide veramente nel tessuto sociale, ciò accade perché i cambiamenti si manifestano in ciascuno di quei tre livelli. In quel caso l’innovazione è destinata a sedimentarsi, a restare nella storia. Si pensi alla scelta del 1992, presidente statunitense Bill Clinton, di liberalizzare l’uso della rete Arpanet; per noi, Internet: da quel momento un profondo cambiamento ha agito su tutte e tre le dimensioni: sono cambiati i nostri comportamenti privati, s’è trasformata la politica (si pensi all’elezione di Barak Obama), è mutata nel profondo la nostra cultura.
Il cambiamento incide poi sui comportamenti dei singoli. Per comprenderlo, una variabile cruciale consiste nella misura di come le persone che hanno aderito al cambiamento cercano di applicarne le istanze.
Lo stesso Fullan sviluppa una riflessione che riguarda il cambiamento applicato ai sistemi formativi, ma che può essere estesa a ogni altro elemento della società, e definisce nove fattori che costituiscono un “sistema di variabili collegate” che influenzano il successo del cambiamento: bisogno, chiarezza, complessità, praticabilità, istituzioni locali, comunità, leadership, agenti del cambiamento, potere politico centrale. In un tale quadro, senza una profonda operazione di significazione e di sedimentazione degli aspetti costitutivi del processo di innovazione, nessuno degli interventi che si auspicano per la nostra provincia avrà mai l’effetto di innovare, cambiare, rimuovere le inerzie che la caratterizzano. E tuttavia, una volta raggiunta tale capacità di significazione, occorrerà pure intervenire con gesti concreti. Ne segnalo alcuni, cruciali a parere di chi scrive.
Sono sei idee per il cambiamento profondo, nella nostra provincia.
Il software, anzitutto, e non l’hardware. È una banalità, alcuni diranno, lo leggiamo ovunque, eppure non l’abbiamo ancora capito. I concetti bolsi di cui balbettano molti dei nostri politici locali (una genia particolarmente impreparata tra i nostri comuni) e che possiamo titolare come: “fare rete”, “polo tecnologico”, “lobbying territoriale” attengono ancora all’hardware, non al software. Non è un caso che l’operazione Comonext, pur apprezzabile, si trova davanti a un interrogativo cruciale, sempre lo stesso: apprezzabile, ma cosa ci si mette dentro? Che coerenza troviamo nel promuovere la cultura del folklorico locale, come vorrebbero le tante proloco comunali, con mezzi che partecipano del mondo del futuro?
Secondo tema. Chi effettua il trasferimento tecnologico in una società moderna? Le università, senza dubbio, i centri di ricerca accademica e sperimentazione avanzata (privata o pubblica). Ora, perché continuare a inventare altri poli fittizi, cui destinare risorse che invece vengono ridotte al mondo accademico? Un classe politica seria dovrebbe curare con maggior attenzione la propria università.
Terzo: nonostante un’università, dove studiano le giovani leve, non si può dimenticare che permane drammaticamente il problema della formazione permanente, soprattutto orientata a chi è avanti con l’età. Ma non si può risolvere tutto con un corso per parrucchieri, pasticcieri o operatori CAD. Se si osserva la formazione professionale comasca, non un solo corso è stato ipotizzato in passato per la formazione di alto livello, post diploma o post università. E invece proprio quello è il segmento su cui operare per migliorare i valori della classe dirigente di oggi, non di quella di dopodomani.
Una buona idea, che potrebbe valere “a tempo”, sarebbe quella di attivare una scuola superiore di studi sociali nella nostra realtà. Si tratterebbe di un centro nel quale procedere alla formazione della classe dirigente locale. Alcuni ci hanno tentato, anche recentemente: il PD ha organizzato lo scorso anno un interessante corso per amministratori i cui esiti sono stati però alquanto discussi. In alcuni paesi, i frequentatori del corso si sono trovati a partecipare a elezioni in liste differenti, una contro l’altra armata. E tuttavia, quest’anno non si replica: al suo posto un deludente programma di conferenze di alcuni politici nazionali. Domanda: cosa racconterà ai militanti democratici di Como la ex presidente piemontese Mercedes Bresso?
Evidentemente, un tale onere dovrebbe e potrebbe essere preso in carico da un ente terzo, che potrebbe spendersi con qualche positivo esito in quella direzione.
Quarto tema, che vale anche a Como, come altrove: si tratta di affrontare il digital divide. Il d.v. consiste nell’impreparazione di molti, anziani, non acculturati e altri, nell’uso delle moderne tecnologie informatiche. Molti, ancora troppi, nelle professioni e negli uffici, sono estranei e quasi nemici delle nuove tecnologie. Occorre una vasta, complessa opera di neo alfabetizzazione, a livello basso, per recuperare questo gap tecnologico.
E visto che ci siamo, perché non spingere per la diffusione dell’open source, anziché per i prodotti a pagamento, Windows in primis: e siamo al quinto tema.
Sesta e ultima proposta: siamo italiani, il nostro problema sono le lingue straniere. Nelle scuole, nei posti di lavoro, nelle biblioteche occorre favorire le certificazioni linguistiche. Sono le strumentazioni che permettono di studiare una lingua come lingua moderna, non come un reperto archeologico di altri tempi. Una classe politica seria promuoverebbe, anche con finanziamenti pubblici, una vasta opera di ritorno della società sui banchi di scuola, per non smettere di imparare.

Vorrà una classe dirigente mirare a questi obiettivi? O non preferirà discutere (solamente) di doppia corsia autostradale, di piani regolatori, di licenze urbanistiche, investimenti nel mattone e nell’asfalto? Anche da queste scelte si misura l’intelligenza diffusa di una società.

Cultura a Como, il trionfo del minimale? o del minimalismo?

All’inizio della sua “crestomazia” Leopardi lamentava la separazione, così tipica nella nostra patria letteratura, tra “bellezza del dire” e “importanza dei pensieri e delle cose”. Come negare nella narrativa di questo inizio secolo la presenza della bellezza del dire, e lo sforzo di farla convivere con l’ importanza dei pensieri e delle cose: si pensi alla Bellezza e gli oppressi di Roberto Saviano, ancor prima alla sua Gomorra, non a caso però ispirazione regina di quello sforzo compositivo è d’oltralpe, alla dichiarazione programmatica di Albert Camus, cui però Saviano giunge, ineluttabilmente, per via filosofica, con la meditazione del saggio sulle riflessioni di Salvatore Veca (Feltrinelli 2002) di qualche anno fa, e che portava sin nel titolo proprio la contemporanea fedeltà agli oppressi e alla bellezza.

È il risultato di meditazioni e rimeditazioni di riflessioni che sono per lo più extraletterarie (importanza dei pensieri e delle cose), è il prodotto di esperienze di vita e di sofferenze, è il prodotto di qualche strana combinazione astrale: non si sa. Sta in fatto che in Italia si è ripreso a scrivere come tanto sarebbe piaciuto a Leopardi. E i nomi ci sono, sono tanti, da Tondelli a Lodoli, da Sandro Onofri a Luigi Malerba, da Alberto Arbasino a Vincenzo Cerami, da Vincenzo Consolo a Saviano. (Mi sia permesso una personale debolezza, una caduta nel poliziesco, ma Almost Blue di Lucarelli, ogni volta che lo leggo, continua a piacermi e quindi vuol dire che si tratta di un bel libro, secondo la prova di verifica sperimentale proposta nell’operetta morale Il Parini, della gloria).
Insomma, ci si riavvicina all’Europa, al mondo, tanto coraggioso e eroico. Non è un caso che qualcuno (per quanto forse non tanto a ragione) propone per l’oggi la definizione di una letteratura italiana come “Nie”, acronimo di New Italian Epic, una nuova epica italiana, per quanto poi riesca a rubricare in questa ondata letteraria persino il Neoromantico di Scurati. Forse sarebbe più corretto pensare a una nuova edizione di un realismo non ipocrita e non ottuso, ma queste sono questioni minime.
Che ci si sia resi conto dell’autoinganno (così lo definisce un critico tanto bravo, Filippo La Porta), la vocazione nazionale delle lettere patrie, che proprio Leopardi aveva individuato, come la propensione degli italiani, dai costumi morali e civili assai labili, preferissero non badare alla verità, ma sentirsela raccontare in canto. Ecco la ragione per cui si fosse disposti ad applaudire (ma con quante riserve, pur sempre di prostituta si trattava, per quanto d’alto bordo) le sofferenze di Violetta nella Traviata, ma la lettura del romanzo dal quale le vicende della povera fanciulla erano state tratte, Signora delle camelie, restava negletta, trascurata, ipocritamente cancellata. Appunto, il canto preponderante sul romanzo.
Quindi nell’Italia dei inizio secolo abbandoniamo finalmente quel minimalismo che dai tempi dell’affermarsi postmodernista ci aveva educati alla lettura (ma state tranquilli, gli strascichi minimali non ci abbandonano, non lo faranno mai, come i dischi dei ricchi e poveri, come Pippo Baudo, come Al Bano Carrisi, come i buoni sentimenti di Sanremo). Non che fosse stucco il postmodern, semplicemente era debole: finché fu in vita Calvino, una mente pensante s’assumeva il compito di alimentare e dare un senso al progetto minimo, anzi lo esaltava; ma Italo Calvino è un prodotto dell’evoluzione intellettuale umana di assai rada distribuzione statistica nella linea del tempo (che so, Ariosto, oggi Pamuk, quanti altri?). Scomparso (e ancora rimpianto) lui, che ci è rimasto? Un reggimento di nipotini, che minimalizzano, abbreviano, centopaginizzano; una noia.
Como sembra attardarsi su questo ridotto minimalista? Non saprei, forse. Alcuni segnali lo farebbero immaginare, e tuttavia vale a Como come altrove: meglio un libro minimalista che nulla, meglio una rassegna cinematografica sul nulla che nessuna rassegna cinematografica, e via banalizzando.
Non è sfuggito infatti a nessuno l’odierna presentazione presso la Biblioteca comunale (ma non si tratta di iniziativa della medesima) ad opera dello scrittore lacustre Andrea Vitali di un corso di scrittura creativa, organizzato dall’Università Cattolica di Milano: minimalismo istituzionalizzato? Certo si tratta di uno dei principali filoni universitari degli ultimi tempi: cercare di insegnare a giovani carichi di vitamine e di sentimenti un modo di “liberarsi” (l’espressione la colgo proprio dal sito di presentazione dell’Università milanese) attraverso la scrittura. La scrittura quindi viene presentata come modo per “ordinare la realtà che si vuole capire e per riprodurre i personali stati d’animo”. Si continua a rileggere la lezione di Calvino: l’arte come modo per tracciare la mappa del labirinto avrebbe detto lo scrittore ligure. E infatti il corso che oggi presenterà Viali non lo nasconde: “Questo corso si rivolge a coloro che desiderano uscire dai meandri delle proprie personali esperienze per parlare ad un pubblico di lettori”. Siamo agli epigoni.
Le perplessità di chi scrive oggi questo pezzo sono molteplici: primo, non sarebbe forse meglio partire con un bel corso di lettura, propedeutico a scrivere? I fondamentali: da Dante a Dostoevski?
Ma a prescindere, come diceva Totò, non sa tutto molto di tecnicistico, di compilatorio, di esteriore? Minimale e descrittivo, come tanti bei libri che abbiamo visto e ricevuto, magari ben impacchettati, nelle recenti vacanze natalizie? Uno su tutti, l’ultimo Ammanniti, “Che la festa cominci”, un libro che lascia senza fiato, nel senso deteriore del termine: in cosa questo racconto mi ha cambiato?
E minimale per minimale, che dire dell’imminente quinto festival comasco sul cinema italiano, e il connesso concorso per esordienti “Rivelazioni”? Pulito, lezioso, privo di pugni nello stomaco, discreto come sanno essere i comaschi, un salto indietro nel weekend postmoderno degli anni Ottanta, si potrebbe dire, pur solo leggendo i titoli e i registi coinvolti. Torniamo alla denuncia leopardiana, valida anche al cinema, perché no: coltiviamo a Como il sentimento “della vanità reale delle cose umane e della vita”, non certo la denuncia di una realtà cattiva e cruda; quella preferiamo lasciarla ad altre latitudini, dove la puzza degli migranti di Rosario o il fuoco dei camorristi di Castel di Principe ammorbano l’aria, tanto fine e pulita dalle nostre parti.
Quando cominceremo a misurarci con una realtà che a volte sa essere pesante e assordante? Quando prenderemo in carico che esiste un mondo fatto “dei pensieri e delle cose” di fronte ai quali il paradiso ipocrita dei buoni sentimenti di una volta non funziona più. Propongo, a modello paradigmatico di una letteratura che non ha paura riguardare in faccia una realtà il romanzo Abraham Yehoshua, Fuoco amico. Un israeliano che non ha paura di trovare in quell’espressione ambigua e ipocrita, propria di un paese in guerra, che in un ossimoro nasconde la tragedia, persino i risvolti biblici della terribile figura del dio ebraico, senza paura, senza infingimenti, senza mascheramenti. Quanti corsi di scrittura creativa dovranno seguire i giovani comaschi, prima di apprendere la difficilissima arte di guardare in faccia la realtà?