Como: la prova del fallimento della riforma Brunetta

Povera Como: ha perduto la cultura della laboriosità, dell’etica del lavoro dei grandi magnati della sua industria del Novecento, ed è oggi fagocitata nel mainstream di un’Italia in cui s’è completata l’ascesa della linea della palma di cui scriveva Leonardo Sciascia nel “Giorno della civetta”.
Avrebbe dovuto, Como, dettare i comportamenti etici d’un civicness d’impianto nordico, e si trova invece a premiare dirigenti pubblici cui va ascritto il grande risultato di gestione dell’edificazione e del successivo abbattimento del muro a lago. È il fallimento d’una cultura dell’etica pubblica che ci fa precipitare, a pieno titolo e a buon diritto, nell’Italia dei paradossi: l’Italia che s’è data un’ideologia dominante che si proclama liberale, ma è affidata al principale monopolista dell’informazione televisiva; che si affida a norme molto limitative della libertà d’ingresso nel nostro paese, ma poi la cosiddetta legge Bossi-Fini che tale risultato dovrebbe garantire realizza le più grandi sanatorie e regolarizzazioni di immigrati clandestini della storia patria; che si proclama artefice d’un radicale progetto di trasformazione in senso federale dello stato, ma poi abolisce l’ICI, lasciando i comuni in braghe di tela; e non paga, li vincola a un patto di stabilità che impedisce loro di investire in opere pubbliche di utilità collettiva.
È la medesima Italia che attende ora gli effetti della “riforma Brunetta”, mirata all’”ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e alla efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni”; una riforma che, da una parte politica come all’altra, andrebbe letta e meditata, prima di precipitarsi in lodi o critiche, il più delle volte infondate (tanto le une quanto le altre).
Strano paese, in cui una sinistra politica e sindacale dovrebbe salutare tale riforma come un proprio risultato politico, e che invece l’ha contrastata, contribuendo a svuotarla di senso e di una cultura che ne rappresenti la patria potestà.
La legge delega con cui il Parlamento dava mandato al Governo di sviluppare un decreto che riformasse la pubblica amministrazione prende il numero 15 delle leggi licenziate nel 2009. Essa affermava, tra le tante cose, molti principi interessanti. Anzitutto quello di “affermazione del principio di concorsualità per l’accesso al lavoro pubblico e per le progressioni di carriera”. Un principio quanto mai disatteso, da tante amministrazioni, ma da nessuna mai quanto dall’attuale governo nazionale. Si pensi al fatto che, proprio per non danneggiare la propensione dell’attuale inquilino di Palazzo Chigi a contraddire tale principio legittimo, il successivo decreto delegato, il decreto legislativo 150 del 2009, la vera e propria riforma, ha dovuto stralciare l’applicazione dei principi riformatori proprio al personale della presidenza del Consiglio: è tutto dire.
La legge delega propone, in ossequio a una cultura del merito e del premio per il merito, di avviare sistemi di misurazione e di valutazione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni. Il che significa responsabilizzare i dirigenti affinché motivino meriti e premi, anche economici, evitando però il sistema dei premi a pioggia: chi ha avuto il coraggio, sin qui, di differenziare davvero i meritevoli da chi meritevole non è? Per evitare l’uso indifferenziato dei premi economici, s’è imposto per legge il criterio di fissare tre fasce di merito per i dipendenti: alta (25 % dei dipendenti cui va assegnato il 50% delle risorse destinate al trattamento accessorio collegato ai risultati individuali), media (un 50 % di dipendenti cui andrà il restante 50% del trattamento accessorio) e bassa, cui non andranno risorse.
Perché dovrebbe essere salutato favorevolmente questo modello, soprattutto da chi ha a cuore i diritti dei lavoratori? Perché sottrae discrezionalità ai dirigenti e soprattutto li responsabilizza (ogni scelta, premiale o meno, va motivata e argomentata).
A questi passaggi, si aggiunge una cura per la trasparenza dei comportamenti amministrativi che davvero non sembra abitare più nei palazzi pubblici della nostra provincia (un esempio: si pensi alla gestione “a porte chiuse” dell’intera partita urbanistica scelta dalla giunta leghista di Cantù; ma come, un partito che rivendica coraggio e onestà si trova poi a operare come una normale giunta dell’Italietta “casalese” tanto criticata?!).
E infine, veniamo all’aspetto tanto vicino a noi. La legge delega detta: l’amministrazione di un comune dovrebbe “prevedere che i sindaci … nominino i componenti dei nuclei di valutazione cui è affidato il compito di effettuare la valutazione dei dirigenti…, e che provvedano a confermare o revocare gli incarichi dirigenziali conformemente all’esito della valutazione”.
Secondo voi, al momento di stabilire i premi produttivi del personale, gli amministratori, che hanno premiato i dirigenti tanto encomiabili di cui sopra, si saranno affidati a criteri di valutazione della redditività del loro operato?
La riforma che porta il nome del ministro Brunetta quindi andrebbe salutata come un successo per la cultura riformista, quella che mira alla parità delle opportunità, anche se lo stesso Brunetta ha dovuto in corso d’opera, al passaggio tra legge delega e decreto delegato operare alcune correzioni, alcuni cedimenti alle logiche del sistema. Di uno s’è detto, riguarda il personale della Presidenza del consiglio dei ministri. Vediamo gli altri: anzitutto, ha abbandonato l’idea di costituire un’autorità di valutazione neutrale per il personale degli uffici dello Stato, del tipo di un’autorità indipendente. Ora si fa riferimento a una Commissione ministeriale. La differenza non è secondaria: si pensi che qualcosa del genere esiste già, è il Comitato tecnico-consultivo presso la Presidenza del consiglio, ed è presieduto (udite, udite!) dall’ex ministro del Bilancio Paolo Cirino Pomicino, una sorta di “mister Deficit”.
Ultimo caduta, la scomparsa, per ora, della possibilità di accedere alla “class action”, ovvero all’azione giudiziaria collettiva contro la pubblica amministrazione, cui la legge delega dava spazio, al contrario del suo decreto delegato successivo.
La class action, l’azione collettiva, possono al più realizzarsela in proprio, ciascuno a suo modo, i comitati di cittadini che non gradiscono più certe scelte politiche o certi comportamenti amministrativi, il più della volte con azioni di polemica pubblica del tipo di quelli che sono nati contro il muro a lago poco prima costruito e poi abbattuto dal Comune di Como.

Ma, domandano giustamente i cittadini: quando ci sarà la possibilità di indicare le responsabilità delle cattive gestioni, o di premiare giustamente dirigenti che meritano e che non appaiono nel palmares dei preferiti dalla classe politica locale?

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