Como: la prova del fallimento della riforma Brunetta

Povera Como: ha perduto la cultura della laboriosità, dell’etica del lavoro dei grandi magnati della sua industria del Novecento, ed è oggi fagocitata nel mainstream di un’Italia in cui s’è completata l’ascesa della linea della palma di cui scriveva Leonardo Sciascia nel “Giorno della civetta”.
Avrebbe dovuto, Como, dettare i comportamenti etici d’un civicness d’impianto nordico, e si trova invece a premiare dirigenti pubblici cui va ascritto il grande risultato di gestione dell’edificazione e del successivo abbattimento del muro a lago. È il fallimento d’una cultura dell’etica pubblica che ci fa precipitare, a pieno titolo e a buon diritto, nell’Italia dei paradossi: l’Italia che s’è data un’ideologia dominante che si proclama liberale, ma è affidata al principale monopolista dell’informazione televisiva; che si affida a norme molto limitative della libertà d’ingresso nel nostro paese, ma poi la cosiddetta legge Bossi-Fini che tale risultato dovrebbe garantire realizza le più grandi sanatorie e regolarizzazioni di immigrati clandestini della storia patria; che si proclama artefice d’un radicale progetto di trasformazione in senso federale dello stato, ma poi abolisce l’ICI, lasciando i comuni in braghe di tela; e non paga, li vincola a un patto di stabilità che impedisce loro di investire in opere pubbliche di utilità collettiva.
È la medesima Italia che attende ora gli effetti della “riforma Brunetta”, mirata all’”ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e alla efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni”; una riforma che, da una parte politica come all’altra, andrebbe letta e meditata, prima di precipitarsi in lodi o critiche, il più delle volte infondate (tanto le une quanto le altre).
Strano paese, in cui una sinistra politica e sindacale dovrebbe salutare tale riforma come un proprio risultato politico, e che invece l’ha contrastata, contribuendo a svuotarla di senso e di una cultura che ne rappresenti la patria potestà.
La legge delega con cui il Parlamento dava mandato al Governo di sviluppare un decreto che riformasse la pubblica amministrazione prende il numero 15 delle leggi licenziate nel 2009. Essa affermava, tra le tante cose, molti principi interessanti. Anzitutto quello di “affermazione del principio di concorsualità per l’accesso al lavoro pubblico e per le progressioni di carriera”. Un principio quanto mai disatteso, da tante amministrazioni, ma da nessuna mai quanto dall’attuale governo nazionale. Si pensi al fatto che, proprio per non danneggiare la propensione dell’attuale inquilino di Palazzo Chigi a contraddire tale principio legittimo, il successivo decreto delegato, il decreto legislativo 150 del 2009, la vera e propria riforma, ha dovuto stralciare l’applicazione dei principi riformatori proprio al personale della presidenza del Consiglio: è tutto dire.
La legge delega propone, in ossequio a una cultura del merito e del premio per il merito, di avviare sistemi di misurazione e di valutazione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni. Il che significa responsabilizzare i dirigenti affinché motivino meriti e premi, anche economici, evitando però il sistema dei premi a pioggia: chi ha avuto il coraggio, sin qui, di differenziare davvero i meritevoli da chi meritevole non è? Per evitare l’uso indifferenziato dei premi economici, s’è imposto per legge il criterio di fissare tre fasce di merito per i dipendenti: alta (25 % dei dipendenti cui va assegnato il 50% delle risorse destinate al trattamento accessorio collegato ai risultati individuali), media (un 50 % di dipendenti cui andrà il restante 50% del trattamento accessorio) e bassa, cui non andranno risorse.
Perché dovrebbe essere salutato favorevolmente questo modello, soprattutto da chi ha a cuore i diritti dei lavoratori? Perché sottrae discrezionalità ai dirigenti e soprattutto li responsabilizza (ogni scelta, premiale o meno, va motivata e argomentata).
A questi passaggi, si aggiunge una cura per la trasparenza dei comportamenti amministrativi che davvero non sembra abitare più nei palazzi pubblici della nostra provincia (un esempio: si pensi alla gestione “a porte chiuse” dell’intera partita urbanistica scelta dalla giunta leghista di Cantù; ma come, un partito che rivendica coraggio e onestà si trova poi a operare come una normale giunta dell’Italietta “casalese” tanto criticata?!).
E infine, veniamo all’aspetto tanto vicino a noi. La legge delega detta: l’amministrazione di un comune dovrebbe “prevedere che i sindaci … nominino i componenti dei nuclei di valutazione cui è affidato il compito di effettuare la valutazione dei dirigenti…, e che provvedano a confermare o revocare gli incarichi dirigenziali conformemente all’esito della valutazione”.
Secondo voi, al momento di stabilire i premi produttivi del personale, gli amministratori, che hanno premiato i dirigenti tanto encomiabili di cui sopra, si saranno affidati a criteri di valutazione della redditività del loro operato?
La riforma che porta il nome del ministro Brunetta quindi andrebbe salutata come un successo per la cultura riformista, quella che mira alla parità delle opportunità, anche se lo stesso Brunetta ha dovuto in corso d’opera, al passaggio tra legge delega e decreto delegato operare alcune correzioni, alcuni cedimenti alle logiche del sistema. Di uno s’è detto, riguarda il personale della Presidenza del consiglio dei ministri. Vediamo gli altri: anzitutto, ha abbandonato l’idea di costituire un’autorità di valutazione neutrale per il personale degli uffici dello Stato, del tipo di un’autorità indipendente. Ora si fa riferimento a una Commissione ministeriale. La differenza non è secondaria: si pensi che qualcosa del genere esiste già, è il Comitato tecnico-consultivo presso la Presidenza del consiglio, ed è presieduto (udite, udite!) dall’ex ministro del Bilancio Paolo Cirino Pomicino, una sorta di “mister Deficit”.
Ultimo caduta, la scomparsa, per ora, della possibilità di accedere alla “class action”, ovvero all’azione giudiziaria collettiva contro la pubblica amministrazione, cui la legge delega dava spazio, al contrario del suo decreto delegato successivo.
La class action, l’azione collettiva, possono al più realizzarsela in proprio, ciascuno a suo modo, i comitati di cittadini che non gradiscono più certe scelte politiche o certi comportamenti amministrativi, il più della volte con azioni di polemica pubblica del tipo di quelli che sono nati contro il muro a lago poco prima costruito e poi abbattuto dal Comune di Como.

Ma, domandano giustamente i cittadini: quando ci sarà la possibilità di indicare le responsabilità delle cattive gestioni, o di premiare giustamente dirigenti che meritano e che non appaiono nel palmares dei preferiti dalla classe politica locale?

Manuale minimo di cambiamento

Se ne parlava già da tempo, ma sembra che durante il governo della signora Thatcher in Gran Bretagna fosse tornato di moda un famoso adagio, che, a parti rovesciate, potrebbe valere anche per la Como dei giorni nostri: i conservatori hanno realizzato una rivoluzione che non volevano; i rivoluzionari non possono riconoscere che i conservatori abbiano fatto una rivoluzione: da entrambe le parti lo sconcerto e il disorientamento regnano sovrani.
Quella frase disegnava una realtà storica paradossale, ma vera; e soprattutto descriveva una certezza: la Gran Bretagna stava vigorosamente cambiando negli anni ’80, e cambiò molto infatti. A Como, potremmo dirla così: gli innovatori che si proponevano grandi cambiamenti, non hanno cambiato nulla; i conservatori, indispettiti, masticano amaro: avrebbero voluto essere loro a non cambiare alcunché.
Altra certezza, altrettanto vera: da venti anni la provincia di Como, i suoi principali comuni: Como e Cantù, per non parlare della Regione Lombardia, sono saldamente nelle mani di chi (Lega Nord anzitutto) disegna grandi mutamenti istituzionali e politici: il sistema si perpetua invece, graniticamente; cambia sì qualcosa, ma perché nulla cambi. Dall’altra parte, chi avrebbe da guadagnare nel denunciare questo falso cambiamento, non si muove: tanta staticità rappresenterebbe la condizione migliore per una forza politica che farebbe di tutto pur di conquistare finalmente il potere in Lombardia e a Como. Ma niente.
Non succede niente.
Forse sarebbe tanto interessante proporre alla classe politica e dirigenziale in senso lato, all’establishment allargato: sindacale, imprenditoriale, finanziario, professionale, e così via, un vademecum al cambiamento, così, giusto per non perdere confidenza con il concetto; un concetto tanto vagheggiato, poco praticato.
Chi oserebbe oggi negare che viviamo in un momento di grande cambiamento? Non è una frase rituale. In un certo senso, in ogni momento storico accade un qualche cambiamento, ma oggi, e qui, nella fascia pedemontana dall’Italia del Nord, si può ragionare di tale concetto con più pertinenza che altrove.
Il concetto di cambiamento è all’apparenza intuitivo; e quindi si pensa che basti comprendere che c’è per poterlo governare. Errore, errore gravissimo, che la nostra classe dirigente locale ha costantemente praticato. Il concetto di cambiamento non si accorda tanto facilmente con quello di management (inteso in senso banale, non nella sua valenza tecnico-professionale), ma trova maggior rispondenza in quello di leadership (l. diffusa, non dell’unico leader, capo carismatico di tipo peronista…). La metafora è quella dell’esercito: quando un esercito è in pace, lo si affida a dei manager (che sappiano gestire bene l’ordinario, pagare la truppa, far quadrare i bilanci, tenere in ordine gli effettivi); quando un esercito è in guerra lo si affida a dei leader, meglio a una leadership diffusa, che lo guidi e lo motivi. La nostra classe dirigente locale, a destra come a sinistra, è cresciuta nel mito del management (il buon manager, la managerialità, e via declinando), è evidente che oggi risulti inadeguata: ci troviamo infatti in una situazione di grande “conflitto”, di movimento spinto, di tensione sociale. Così, continuando a pronunciare il mantra del management anglosassone: “innovate or die”, il nostro establishment locale ha dissipato credito, tempo e risorse, nonché credibilità, per realizzare quasi nulla.
Due esempi locali, localissimi. Il primo a Cantù: un’amministrazione di destra a traino leghista (sindaco Tiziana Sala) ha deciso di provare l’assalto alla locale Cassa rurale. Si direbbe: con il consenso bulgaro appena conquistato alle elezioni regionali, ogni cosa sarebbe stata facile. Ma no: l’assalto alla cassaforte locale da parte dei politici cittadini si risolve in un flop: il 13 % dei voti dei soci della cooperativa danno credito a quel tentativo di “rinnovamento” (ricordiamoci: “innovate or die”). Cos’è: i canturini si sono tutti convertiti in un mese e hanno rinnegato il loro recente voto? No, semplicemente hanno capito che non hanno a che fare con una classe dirigente vera, una leadership diffusa, ma a qualcuno cui affidare, purché non sia rotto dopo cinque anni, il giocattolo dell’amministrazione comunale. Dei manager, non dei leader: e dei manager neppure troppo colti in cultura del management.
Ben più ferrati dei canturini in cultura manageriale, gli amministratori comaschi: a destra e a sinistra, sono guidati da dottori commercialisti. Verrebbe da dire: andrà meglio sulle rive del lago. E invece no. Una giunta comasca più sciaguattata di quella guidata dal sindaco Bruni non s’era mai vista. Paralizzata, incapace di decidere niente, non ha saputo cambiare proprio nulla. Spendere qualche euro, sì. Ma la sfiducia dei cittadini in questa classe dirigente è oggi palpabile ed evidente. Paratie a lago docent.
Eppure le cosa cambiano. E il loro cambiare è una sfida “mortale” (questa sì) per l’intera comunità locale. In tale cambiamento, non sappiamo altro che usare alcune parole che valgono per noi come esorcismi. La prima è la parola “riforma”: è diventata un imperativo globale. Nel lessico politico è ormai un passe partout. Ma cosa riformare? E poi, a cosa serve la riforma se non si accompagna a una cultura riformista? La seconda parola è “sviluppo tecnologico”: non sempre le riforme riescono a interpretare i cambiamenti delle tecnologie, che comunque proseguono a prescindere dall’azione dei politici. Addirittura, alcuni sociologi (E. Hoyle e M. Fallace, Londra 2005) hanno coniato il termine di “ironia delle riforme”: si tratta di quelle iniziative legislative che a volte hanno esiti opposti a quelli dichiarati. Si pensi al tentativo dei nostri amministratori di sottoporre le città al controllo totale: ovunque telecamere; poi però le telecamere si guastano e non ci sono i soldi per ripararle; non c’è personale da mettere dietro a quelle telecamere, e la spesa quindi si rivela inutile; oppure, si pensi alla legge Bossi-Fini che avrebbe dovuto bloccare l’immigrazione clandestina, ma si è risolta alla fine nel realizzare la più grande regolarizzazione di immigrati clandestini in Italia: un milione in pochi anni!
Pertanto, prima regola per chi voglia misurarsi con il cambiamento: anzitutto procedere nell’esame delle “conseguenze inattese”. Serve per misurare il successo delle riforme rispetto agli obiettivi che si prefiggevano. Una conseguenza di questo obiettivo, che però non è stata sufficientemente considerata, tanto che non la si riesce a praticare, è che esso prevederebbe una completa ridefinizione del modello amministrativo che oggi prevale nel nostro sistema politico. Per scrivere riforme o ordinanze innovative basta un po’ di fantasia, un dirigente che pratichi il diritto amministrativo, e spesso un po’ di faccia tosta (si pensi al numero verde per la denuncia dei clandestini a Cantù, ad esempio…). Ma per misurare l’insieme delle conseguenze inattese, occorre molto di più: capacità d’ascolto, sedi di confronto largo e allargato, intelligenza prospettica. Una serie di facoltà che difettano tra i nostri politici e nell’insieme della classe dirigente locale intesa senso latu.
A seguire, ecco la seconda regola del manuale minimo del cambiamento. Se volete misurarvi con esso, cercate un “modello di gestione del cambiamento”. Si tratta di costruire un approccio al cambiamento, che esisterebbe a prescindere dal fatto che una società decida o meno di misurarsi con esso. In altri termini, si tratta di comprendere le dinamiche che nascono dall’incontro tra idee globali e tradizioni storiche e culturali del nostro contesto. Non che in passato non ci si sia misurati con l’arrivo delle idee nuove: c’è stata la fase dell’”efficacia interna”, quando si pianificava un lavoro politico sulla base di obiettivi politici accettati e condivisi. Qui serviva una politica manageriale (e paradossalmente è stata la fase in cui le forze politiche di centro sinistra hanno dato il meglio di sé). Poi è stata la volta dell’”efficacia esterna”: ci si rende conto che una buona politica non deve solo limitarsi ai suoi processi interni, ma deve considerare i portatori di interessi che le sono esterni, la società complessivamente intesa (in questa fase si comincia a parlare di stakeholders; tra parentesi, a sinistra, nella nostra zona, non se ne sono ancora accorti). A questa fase inizia ad associarsi una riduzione delle risorse finanziarie del sistema sociale messe a disposizione della politica. Si punta quindi su una superiore qualità della politica, ma i risultati a quanto pare non sono all’altezza: come conciliare questi obiettivi, di cui pure le amministrazioni di destra della nostra provincia avevano assunto l’onere, con i risultati ottenuti? I costi della politica, che avrebbero dovuto abbattere, sono aumentati. La privatizzazione dei servizi è avvenuta, certo, ma in un contesto di mancata liberalizzazione, per cui oggi abbiamo servizi esercitati in modo privatistico, ma in un regime di monopolio. Oltre al danno, la beffa (i servizi costano troppo).
La sfida lanciata alla politica a fine secolo scorso (a Como esercitata dalla sola destra, dato che l’altra parte è rimasta sostanzialmente marginalizzata), sfida di misurarsi con l’insieme dei portatori di interessi, è oggi sostanzialmente irrisolta: la nostra classe dirigente è stata inadeguata a questi compiti, soprattutto per difficoltà relazionali. E già si prefigura una terza fase, quella dell’”efficacia futura” (ne parla un sociologo cinese, Y.C. Cheng, di Honk Kong, 2000). Si fonda su questa domanda: “la qualità di oggi… è in grado di produrre effetti abbastanza duraturi da mettere le nuove generazioni in condizione di fronteggiare le sfide del nuovo millennio?”.
Ma questo è un tema davvero improbo per la nostra classe dirigente locale. A qualsiasi condizione si rifaccia, in qualsiasi parte politica si produca, siamo di fronte a una generazione di dirigenti politici, sindacali, manager, professionisti e così via, che a malapena si pongono i problemi dell’oggi; come faranno mai a porsi i temi del domani? Torniamo a Como: come farà la giunta Bruni, con quale energie psichiche e quali risorse culturali, a progettare interventi che vadano al di là della prossima seduta del consiglio comunale? O della imminente esondazione del lago?
Per non dire della classe dirigente provinciale, politici in testa, con la Lega di Carioni sopra tutti: esiste ancora? Ha qualcosa da dire? Dovremo evocarla in qualche seduta spiritica?
E qui abbiamo la terza regola del manuale minimo del cambiamento. Alla classe politica locale necessiterebbe, sopra di tutto, molto, molto studio. Dovrebbero tornare tra i banchi: consiglieri, assessori e dirigenti pubblici; ma anche sindacalisti, manager, professionisti e così via. Vi sono studi sociologici, statistici, tecnologici, scientifici, nuove teorie politiche da conoscere, comprendere e meditare, cercando di coniugarli alla nostra specificità territoriale: li studino!
Alternativa: continuare così, non muoversi, subire passivamente i cambiamenti che il mondo ci imporrà; tanto, a consolarci, ci sarà sempre un George Clooney che prenda casa a Blevio e ci confermi che il lago, dopotutto, è proprio un bel posto in cui vivere.

Manuale del cambiamento / 2

Il premio Nobel per la letteratura del 2009, la scrittrice rumeno-tedesca Herta Müller, ha scritto della sua attività letteraria: “Cerco sempre di immaginarmi ai margini dell’avvenimento che sto osservando”. Non è solo una scelta di rispetto per la realtà, ma un modo di guardare al mondo: cercare il nuovo non nel centro focale del nostro campo visivo, ma in limine. È lì, ai margini del nostro sguardo, che possiamo trovare l’inaspettato, un continente nuovo…
Il cambiamento è tornato a far riflettere. A parte gli interventi sulla stampa, lo si impone ad esempio nell’intento dichiarato per il progetto Comonext, di cui la stampa ha raccontato nei giorni passati.
Sembra però che il nostro establishment locale sia intenzionato a fissare, anche in questo ultimo caso, come sempre fatto sin qui, bene al centro del proprio campo visivo: ai margini, non è data speranza. D’altra parte, come non comprendere l’ansia di un povero amministratore, un manager pubblico o privato, un capitano o un caporale d’industria che di fronte al panico di una crisi perfetta si ingegni a misurarsi con i livelli liminari della propria attività? Di fronte alla paura, chi se la sente di affrontare il cambiamento?
Il fatto vero è che il cambiamento si impone contemporaneamente su dimensioni non omogenee: avviene localmente, globalmente e individualmente. A tutte e tre queste dimensioni occorre dare risposte. Dimenticarne una, significa far patire al cambiamento l’imperfezione ironica della storia.
Ad esempio, pensare di beneficiare del cambiamento che avviene a livello globale, e nella formazione individuale, ma poi rifuggire l’ipotesi che il cambiamento si manifesti anche a livello locale è il difetto di fabbrica del pensiero leghista. Pensare che debbano cambiare i modelli locali e globali ma poi immaginare che nulla accada a livello individuale è altra deformazione del modello reazionario che non è disponibile ad accettare che i diritti individuali possano progredire.
Le tre prospettive del cambiamento devono muoversi assieme, quindi, integrate tra loro.
Occorre, quindi, osservare con cura il cambiamento, in formazione, per comprendere come funziona realmente.
Un sociologo canadese, Michael Fullan, nel saggio New Meaning of Educational Change (2001), ne definisce alcuni aspetti: le tipologie del cambiamento (come inizia il cambiamento?); le componenti e i livelli del cambiamento; i fattori chiave nella realizzazione del cambiamento.
Nel concreto: l’origine di una innovazioni può avere diverse fonti e motivazioni. Alcune scelte sono adottate per motivi di opportunità formale, di convenienza, di prestigio, e differiscono da quanto viene realizzato davvero. A volte si adottano cambiamenti che hanno solo valore simbolico, non un valore reale. Noi italiani siamo dei maestri a riguardo. Da quanti anni l’attuale classe dirigente nazionale ci ha promesso una rivoluzione liberale? Sedici? Dalla famosa “discesa in campo” del 1994? Ma siamo sicuri che mai ci arriverà il tanto agognato paradiso dei liberali? Siamo ancora in attesa che la promessa si realizzi! A volte nel cambiamento si nascondono ragioni di sopravvivenza politica o burocratica. Si pensi al modo con cui, a vario titolo, e da varie provenienze politiche, un’intera classe dirigente (a sinistra come a destra) si sia adattata a mutamenti di tipo gattopardesco, pur di salvare il grosso del proprio corpaccione burocratico. Si possono definire questi mutamenti di casacca come un profondo e sincero cambiamento politico? quando riti, deformazioni concettuali, tic e virtù dei vecchi corpi politici si sono riprodotti nel presente?
Nel complesso, il cambiamento ha molteplici dimensioni, che agiscono (possono agire) insieme: nuovi materiali e strumenti tecnologici; nuove teorie politiche; le trasformazioni culturali (profonde) della società. Può accadere che una classe dirigente adoperi nuovi strumenti e tecnologie innovative, senza modificare niente della politica o dei valori culturali profondi. Oppure, può accadere che si miri a cambiamenti di politica e di tecniche ma non si voglia mettere in discussione i valori culturali profondi. Quando una riforma incide veramente nel tessuto sociale, ciò accade perché i cambiamenti si manifestano in ciascuno di quei tre livelli. In quel caso l’innovazione è destinata a sedimentarsi, a restare nella storia. Si pensi alla scelta del 1992, presidente statunitense Bill Clinton, di liberalizzare l’uso della rete Arpanet; per noi, Internet: da quel momento un profondo cambiamento ha agito su tutte e tre le dimensioni: sono cambiati i nostri comportamenti privati, s’è trasformata la politica (si pensi all’elezione di Barak Obama), è mutata nel profondo la nostra cultura.
Il cambiamento incide poi sui comportamenti dei singoli. Per comprenderlo, una variabile cruciale consiste nella misura di come le persone che hanno aderito al cambiamento cercano di applicarne le istanze.
Lo stesso Fullan sviluppa una riflessione che riguarda il cambiamento applicato ai sistemi formativi, ma che può essere estesa a ogni altro elemento della società, e definisce nove fattori che costituiscono un “sistema di variabili collegate” che influenzano il successo del cambiamento: bisogno, chiarezza, complessità, praticabilità, istituzioni locali, comunità, leadership, agenti del cambiamento, potere politico centrale. In un tale quadro, senza una profonda operazione di significazione e di sedimentazione degli aspetti costitutivi del processo di innovazione, nessuno degli interventi che si auspicano per la nostra provincia avrà mai l’effetto di innovare, cambiare, rimuovere le inerzie che la caratterizzano. E tuttavia, una volta raggiunta tale capacità di significazione, occorrerà pure intervenire con gesti concreti. Ne segnalo alcuni, cruciali a parere di chi scrive.
Sono sei idee per il cambiamento profondo, nella nostra provincia.
Il software, anzitutto, e non l’hardware. È una banalità, alcuni diranno, lo leggiamo ovunque, eppure non l’abbiamo ancora capito. I concetti bolsi di cui balbettano molti dei nostri politici locali (una genia particolarmente impreparata tra i nostri comuni) e che possiamo titolare come: “fare rete”, “polo tecnologico”, “lobbying territoriale” attengono ancora all’hardware, non al software. Non è un caso che l’operazione Comonext, pur apprezzabile, si trova davanti a un interrogativo cruciale, sempre lo stesso: apprezzabile, ma cosa ci si mette dentro? Che coerenza troviamo nel promuovere la cultura del folklorico locale, come vorrebbero le tante proloco comunali, con mezzi che partecipano del mondo del futuro?
Secondo tema. Chi effettua il trasferimento tecnologico in una società moderna? Le università, senza dubbio, i centri di ricerca accademica e sperimentazione avanzata (privata o pubblica). Ora, perché continuare a inventare altri poli fittizi, cui destinare risorse che invece vengono ridotte al mondo accademico? Un classe politica seria dovrebbe curare con maggior attenzione la propria università.
Terzo: nonostante un’università, dove studiano le giovani leve, non si può dimenticare che permane drammaticamente il problema della formazione permanente, soprattutto orientata a chi è avanti con l’età. Ma non si può risolvere tutto con un corso per parrucchieri, pasticcieri o operatori CAD. Se si osserva la formazione professionale comasca, non un solo corso è stato ipotizzato in passato per la formazione di alto livello, post diploma o post università. E invece proprio quello è il segmento su cui operare per migliorare i valori della classe dirigente di oggi, non di quella di dopodomani.
Una buona idea, che potrebbe valere “a tempo”, sarebbe quella di attivare una scuola superiore di studi sociali nella nostra realtà. Si tratterebbe di un centro nel quale procedere alla formazione della classe dirigente locale. Alcuni ci hanno tentato, anche recentemente: il PD ha organizzato lo scorso anno un interessante corso per amministratori i cui esiti sono stati però alquanto discussi. In alcuni paesi, i frequentatori del corso si sono trovati a partecipare a elezioni in liste differenti, una contro l’altra armata. E tuttavia, quest’anno non si replica: al suo posto un deludente programma di conferenze di alcuni politici nazionali. Domanda: cosa racconterà ai militanti democratici di Como la ex presidente piemontese Mercedes Bresso?
Evidentemente, un tale onere dovrebbe e potrebbe essere preso in carico da un ente terzo, che potrebbe spendersi con qualche positivo esito in quella direzione.
Quarto tema, che vale anche a Como, come altrove: si tratta di affrontare il digital divide. Il d.v. consiste nell’impreparazione di molti, anziani, non acculturati e altri, nell’uso delle moderne tecnologie informatiche. Molti, ancora troppi, nelle professioni e negli uffici, sono estranei e quasi nemici delle nuove tecnologie. Occorre una vasta, complessa opera di neo alfabetizzazione, a livello basso, per recuperare questo gap tecnologico.
E visto che ci siamo, perché non spingere per la diffusione dell’open source, anziché per i prodotti a pagamento, Windows in primis: e siamo al quinto tema.
Sesta e ultima proposta: siamo italiani, il nostro problema sono le lingue straniere. Nelle scuole, nei posti di lavoro, nelle biblioteche occorre favorire le certificazioni linguistiche. Sono le strumentazioni che permettono di studiare una lingua come lingua moderna, non come un reperto archeologico di altri tempi. Una classe politica seria promuoverebbe, anche con finanziamenti pubblici, una vasta opera di ritorno della società sui banchi di scuola, per non smettere di imparare.

Vorrà una classe dirigente mirare a questi obiettivi? O non preferirà discutere (solamente) di doppia corsia autostradale, di piani regolatori, di licenze urbanistiche, investimenti nel mattone e nell’asfalto? Anche da queste scelte si misura l’intelligenza diffusa di una società.

Cultura a Como, il trionfo del minimale? o del minimalismo?

All’inizio della sua “crestomazia” Leopardi lamentava la separazione, così tipica nella nostra patria letteratura, tra “bellezza del dire” e “importanza dei pensieri e delle cose”. Come negare nella narrativa di questo inizio secolo la presenza della bellezza del dire, e lo sforzo di farla convivere con l’ importanza dei pensieri e delle cose: si pensi alla Bellezza e gli oppressi di Roberto Saviano, ancor prima alla sua Gomorra, non a caso però ispirazione regina di quello sforzo compositivo è d’oltralpe, alla dichiarazione programmatica di Albert Camus, cui però Saviano giunge, ineluttabilmente, per via filosofica, con la meditazione del saggio sulle riflessioni di Salvatore Veca (Feltrinelli 2002) di qualche anno fa, e che portava sin nel titolo proprio la contemporanea fedeltà agli oppressi e alla bellezza.

È il risultato di meditazioni e rimeditazioni di riflessioni che sono per lo più extraletterarie (importanza dei pensieri e delle cose), è il prodotto di esperienze di vita e di sofferenze, è il prodotto di qualche strana combinazione astrale: non si sa. Sta in fatto che in Italia si è ripreso a scrivere come tanto sarebbe piaciuto a Leopardi. E i nomi ci sono, sono tanti, da Tondelli a Lodoli, da Sandro Onofri a Luigi Malerba, da Alberto Arbasino a Vincenzo Cerami, da Vincenzo Consolo a Saviano. (Mi sia permesso una personale debolezza, una caduta nel poliziesco, ma Almost Blue di Lucarelli, ogni volta che lo leggo, continua a piacermi e quindi vuol dire che si tratta di un bel libro, secondo la prova di verifica sperimentale proposta nell’operetta morale Il Parini, della gloria).
Insomma, ci si riavvicina all’Europa, al mondo, tanto coraggioso e eroico. Non è un caso che qualcuno (per quanto forse non tanto a ragione) propone per l’oggi la definizione di una letteratura italiana come “Nie”, acronimo di New Italian Epic, una nuova epica italiana, per quanto poi riesca a rubricare in questa ondata letteraria persino il Neoromantico di Scurati. Forse sarebbe più corretto pensare a una nuova edizione di un realismo non ipocrita e non ottuso, ma queste sono questioni minime.
Che ci si sia resi conto dell’autoinganno (così lo definisce un critico tanto bravo, Filippo La Porta), la vocazione nazionale delle lettere patrie, che proprio Leopardi aveva individuato, come la propensione degli italiani, dai costumi morali e civili assai labili, preferissero non badare alla verità, ma sentirsela raccontare in canto. Ecco la ragione per cui si fosse disposti ad applaudire (ma con quante riserve, pur sempre di prostituta si trattava, per quanto d’alto bordo) le sofferenze di Violetta nella Traviata, ma la lettura del romanzo dal quale le vicende della povera fanciulla erano state tratte, Signora delle camelie, restava negletta, trascurata, ipocritamente cancellata. Appunto, il canto preponderante sul romanzo.
Quindi nell’Italia dei inizio secolo abbandoniamo finalmente quel minimalismo che dai tempi dell’affermarsi postmodernista ci aveva educati alla lettura (ma state tranquilli, gli strascichi minimali non ci abbandonano, non lo faranno mai, come i dischi dei ricchi e poveri, come Pippo Baudo, come Al Bano Carrisi, come i buoni sentimenti di Sanremo). Non che fosse stucco il postmodern, semplicemente era debole: finché fu in vita Calvino, una mente pensante s’assumeva il compito di alimentare e dare un senso al progetto minimo, anzi lo esaltava; ma Italo Calvino è un prodotto dell’evoluzione intellettuale umana di assai rada distribuzione statistica nella linea del tempo (che so, Ariosto, oggi Pamuk, quanti altri?). Scomparso (e ancora rimpianto) lui, che ci è rimasto? Un reggimento di nipotini, che minimalizzano, abbreviano, centopaginizzano; una noia.
Como sembra attardarsi su questo ridotto minimalista? Non saprei, forse. Alcuni segnali lo farebbero immaginare, e tuttavia vale a Como come altrove: meglio un libro minimalista che nulla, meglio una rassegna cinematografica sul nulla che nessuna rassegna cinematografica, e via banalizzando.
Non è sfuggito infatti a nessuno l’odierna presentazione presso la Biblioteca comunale (ma non si tratta di iniziativa della medesima) ad opera dello scrittore lacustre Andrea Vitali di un corso di scrittura creativa, organizzato dall’Università Cattolica di Milano: minimalismo istituzionalizzato? Certo si tratta di uno dei principali filoni universitari degli ultimi tempi: cercare di insegnare a giovani carichi di vitamine e di sentimenti un modo di “liberarsi” (l’espressione la colgo proprio dal sito di presentazione dell’Università milanese) attraverso la scrittura. La scrittura quindi viene presentata come modo per “ordinare la realtà che si vuole capire e per riprodurre i personali stati d’animo”. Si continua a rileggere la lezione di Calvino: l’arte come modo per tracciare la mappa del labirinto avrebbe detto lo scrittore ligure. E infatti il corso che oggi presenterà Viali non lo nasconde: “Questo corso si rivolge a coloro che desiderano uscire dai meandri delle proprie personali esperienze per parlare ad un pubblico di lettori”. Siamo agli epigoni.
Le perplessità di chi scrive oggi questo pezzo sono molteplici: primo, non sarebbe forse meglio partire con un bel corso di lettura, propedeutico a scrivere? I fondamentali: da Dante a Dostoevski?
Ma a prescindere, come diceva Totò, non sa tutto molto di tecnicistico, di compilatorio, di esteriore? Minimale e descrittivo, come tanti bei libri che abbiamo visto e ricevuto, magari ben impacchettati, nelle recenti vacanze natalizie? Uno su tutti, l’ultimo Ammanniti, “Che la festa cominci”, un libro che lascia senza fiato, nel senso deteriore del termine: in cosa questo racconto mi ha cambiato?
E minimale per minimale, che dire dell’imminente quinto festival comasco sul cinema italiano, e il connesso concorso per esordienti “Rivelazioni”? Pulito, lezioso, privo di pugni nello stomaco, discreto come sanno essere i comaschi, un salto indietro nel weekend postmoderno degli anni Ottanta, si potrebbe dire, pur solo leggendo i titoli e i registi coinvolti. Torniamo alla denuncia leopardiana, valida anche al cinema, perché no: coltiviamo a Como il sentimento “della vanità reale delle cose umane e della vita”, non certo la denuncia di una realtà cattiva e cruda; quella preferiamo lasciarla ad altre latitudini, dove la puzza degli migranti di Rosario o il fuoco dei camorristi di Castel di Principe ammorbano l’aria, tanto fine e pulita dalle nostre parti.
Quando cominceremo a misurarci con una realtà che a volte sa essere pesante e assordante? Quando prenderemo in carico che esiste un mondo fatto “dei pensieri e delle cose” di fronte ai quali il paradiso ipocrita dei buoni sentimenti di una volta non funziona più. Propongo, a modello paradigmatico di una letteratura che non ha paura riguardare in faccia una realtà il romanzo Abraham Yehoshua, Fuoco amico. Un israeliano che non ha paura di trovare in quell’espressione ambigua e ipocrita, propria di un paese in guerra, che in un ossimoro nasconde la tragedia, persino i risvolti biblici della terribile figura del dio ebraico, senza paura, senza infingimenti, senza mascheramenti. Quanti corsi di scrittura creativa dovranno seguire i giovani comaschi, prima di apprendere la difficilissima arte di guardare in faccia la realtà?

Libera repubblica di Albate

Dovranno pure fermarsi, prima o poi, le “provocazioni” edificanti della nostra classe dirigente.

Quando i candidati alle prossime elezioni regionali si recheranno ad Albate, quartiere di Como, per un’iniziativa elettorale, sappiano sin d’ora come dovranno atteggiarsi: con un sorriso benevolo e accogliente verso l’ultima frontiera del discorso politico comasco, accarezzata da destra come da sinistra, equanimemente, e apprezzata a quanto pare dai cittadini del piccolo quartiere cittadino.
Secessione, secessione: è il nuovo urlo che promana dal consiglio comunale di Como.
La storia, magistralmente, è rievocata su l’Ordine di ieri.
Nel 1943 Albate è annessa alla città di Como, con essa altre località marginali del capoluogo vi sono aggiunte. Nasce la possibilità di dare vita a un grande capoluogo: scommessa perduta.
Dopo la nascita della Repubblica, Como è colpita dalla sindrome secessionista. Aveva già perduto la provincia di Sondrio, poi perde la provincia di Varese, in seguito la provincia di Lecco saluta e si mette a sé. La grandezza del capoluogo che fu, un tempo, una vera e propria marca di confine, svanisce in un continuo svilimento di territori, forze economiche, demografiche e culturali. Un disastro. E a quanto pare, la sindrome della secessione, così entusiasticamente alimentata dalla propaganda leghista negli ultimi anni, oggi colpisce la città di Como, come una nemesi storica.
“La secessione? Un’ipotesi come le altre” diceva in un’intervista il Bossi ancora nel 2007, non dieci anni fa.
E ora, fresco come un quarto di pollo, prima un consigliere comunale della minoranza, poi uno della maggioranza se ne escono rivendicando per il quartiere di Albate il diritto alla secessione. Risposta entusiastica dei cittadini albatesi, a quanto pare…
Così con un bel referendum cittadino si potrà decidere se sottrarre i tributi albatesi alle casse del comune di Como, a quanto pare assetate di euro, per giungere al che permetterebbero persino la cementificazione dell’oasi del Bassone, pur di incassare i tanto sperati oneri di urbanizzazione, unica risorsa in grado ormai di rimpinguare le casse comunali.
Una prima notazione, chissà se qualcuno se la sarà rammentata? Ma sino a due anni fa i comuni godevano dell’unica risorsa finanziaria di natura federale, che permetteva loro entrate significative ma non troppo onerose per i cittadini: l’ICI. Il governo che più di tutti ha sbandierato l’ipotesi federale, perché ha al suo interno la Lega, partito localista per eccellenza, ha pensato di abolirla l’ICI, e di lasciare i comuni in braghe di tela. Da qui tutto un arrangiarsi con tasse di scopo, spazzatura, gas, multe agli automobilisti e per l’appunto oneri di urbanizzazione.
La classe politica locale ha già dimenticato quel passaggio, e ora finge di non rammentare che quella tassa federale sarebbe molto meglio di tante invenzioni contabili di matrice fantastica?
Ma c’è anche una divertente riflessione da sviluppare sulla deriva di una classe politica locale che ora finge di non capire. Si promuovono a livello macroscopico, su scala continentale, la nascita di uno spazio giuridico continentale, di uno spazio militare e politico unificati; si promuove anche a livello micro la nascita di unioni di comuni, per favorire l’aggregazione di porzioni amministrative ormai risibili sul piano locale (comunelli di centinaia di abitanti che non sono in grado di fornire servizi se non consorziati): l’unione dei comuni della Tremezzina ne è un esempio, lampante, ed efficace oltre che efficiente. E a Como, dove, a quanto pare, una miopia politica grave ha colto buona parte della classe dirigente cittadina, ci si balocca con idee di separazione che non si capisce se servano ai cittadini o a chi le promuove.
L’idea è buona, quanto a precedenti. Ha lontane origini nella secessione del popolo romano (Eutropio: sedici anni dopo la cacciata dei re, il popolo fece sedizione, come se fosse oppresso dal Senato e dai consoli): siamo nel 494 avanti Cristo e proprio i plebei non ce la fanno più a sottostare alle pressioni dei patrizi, ma si tratta soprattutto di diritti politici negati, non di oneri d’urbanizzazione e di valori immobiliari… Da lì, è tutta una sequela di secessioni tentate e riuscite. Una tra quelle non riuscite, quella americana di metà Ottocento: quante centinaia di migliaia di morti per non raggiungere nulla. Ma almeno ci provarono i Confederati a staccarsi da un’Unione considerata accentratrice e tiranna…E poi la secessione riuscita della Slovacchia dalla repubblica Ceca, e quella sanguinosa di tutti contro tutti nella ex Yugoslavia. Ora siamo all’epilogo comasco.
Un politico “fino” come Rapinese lancia l’idea: ma separiamoci da Como, così saremo in grado di meglio governare i nostri tributi. Sempre lì va l’accento. Non ai diritti, ai doveri mancati, ma al soldo. Quasi che in quella dimensione vi fosse tutto, l’alfa e l’omega della nostra politica. Il che la rende una politica misera, proprio perché non pensa che a quello, ai soldi.
Ma hanno pensato Rapinese, Rudilosso e altri interessati alla faccenda, che potrebbe anche accadere che, raggiunta la secessione, qualcuno, magari interessato al formidabile bacino elettorato della frazione di Olmeda, possa bandire, raggiunta l’autonomia, una nuova secessione, questa volta dal comune di Albate? E che dire se gli abitanti di via Acquanera un giorno decidessero che le loro tasse le vogliono proprio spese nella loro via, e decidessero a loro volta la secessione dal mondo?
Ora a noi può far ridere. Ma si tratta di questione molto seria, studiata e valutata con attenzione da ricercatori del sociale seri e preparati, che indagano il buco oscuro, e a quanto pare senza fondo, nel quale la società italiana si è infilata.
Classi politiche furbe quanto miopi, accarezzano istinti primordiali, definiti identitari, al fine di consolidare potere e consenso. Si comincia con i meridionali, si procede con gli extracomunitari, si finisce con gli abitanti di piazza Cavour. Per consolidare questo obiettivo, ci si costruisce differenze culturali, magari etniche o razziali. E va bene cercarne con chi viene da miglia di chilometri di distanza, ma con chi abita in via Dante, non risulterà più difficile?
L’importante, come scrive un importante antropologo francese, Jean Pouillon, è non sbarazzarsi di una storia, purché sia: “le società moderne manipolano il loro passato in funzione dei loro bisogni presenti”. Ciò fatto, costruita una “cultura” per questi obiettivi di bassissimo valore, il gioco è completato.
Ora, viene da domandarsi, se cittadini tanto seri e responsabili siano coscienti di quanto abbiano prodotto in termini di rappresentanza politica, e se non venga loro il desiderio di un profondo ripensamento della propria delega.

Una memoria storica, per concludere: l’ultimo bilancio che registrò tra le uscite le quote di spesa pubblica del comune di Como suddivise per circoscrizioni fu presentato dalla giunta di Renzo Pigni, era assessore al bilancio Emilio Russo. Da allora, gli amministratori hanno dimesso questa bella prova di trasparenza: che ciascuno sappia quanto, in termini percentuali si spenda in opere pubbliche quartiere per quartiere. Non sarebbe una bella idea riproporlo?

La famiglia e la recente cronaca comasca: tomba o trappola?

Dopo tanto leggere del caso di cronaca del mese, dopo tanto parlare del gesto del padre che difende a suo modo il proprio tetto, s’è finito col dimenticare il valore delle parole, e dei gesti: a volte i gesti (come le parole) possono sembrare diversi da quello che sono.

Consideriamo un padre, che può apparire premuroso, che pensa al destino della propria figlia, e nel momento in cui l’avvia a un futuro da lei non gradito, s’acconcia a forzarne la volontà, al limite della violenza morale: è il padre della sventurata Gertrude, decimo capitolo dei Promessi sposi di Manzoni, obbligata a prendere l’abito monacale, contro la sua volontà, la sua predisposizione, contro i suoi sogni adolescenziali. Così lo fa parlare l’autore lombardo, e così dimostra quanta grandezza e intelligenza sia nel suo progetto: “V’aspettano, e tutti gli occhi saranno sopra di voi. Dignità e disinvoltura. La badessa vi domanderà cosa volete: è una formalità. Potete rispondere che chiedete d’essere ammessa a vestir l’abito in quel monastero, dove siete stata educata così amorevolmente, dove avete ricevute tante finezze: che è la pura verità. Dite quelle poche parole, con un fare sciolto: che non s’avesse a dire che v’hanno imboccata, e che non sapete parlare da voi. Quelle buone madri non sanno nulla dell’accaduto: è un segreto che deve restar sepolto nella famiglia…”
“Sepolto nella famiglia”: la scelta lessicale, una vera e propria metafora, è indicativa dello stato d’animo e della considerazione che Manzoni ci dà della famiglia: un luogo in cui si possa seppellire un segreto; in una tomba si seppellisce qualcosa; la famiglia come tomba, quindi, in cui fare morire segreti inconfessabili…
Ci rendiamo conto, da questa lettura, della modernità e dell’intuizione a dir poco geniale con cui Manzoni anticipa visioni assai critiche della famiglia che appartengono alla seconda metà del secolo a lui successivo. Non la famiglia ipostatizzata da una propaganda conservatrice, che in essa vede l’ultimo presidio alla conservazione di chissà quali valori. Egli immagina una vita in cui l’uomo si liberi da vincoli e pesi sociali che lo condizionino. È, in questo, quanto mai cristiano, molto più cristiano di quanto non sia il devoto padre della giovane monaca di Monza. Egli legge il vangelo di Luca (12, 49-53) in cui Gesù predica: “Sono venuto a portar fuoco sulla terra, e quanto desidererei che fosse già acceso! […] Credete che io sia venuto a mettere la pace sulla terra? No, io vi dico, ma la divisione. […] Saranno divisi il padre contro il figlio, il figlio contro il padre, la madre contro la figlia, e la figlia contro la madre, la suocera contro la nuora, e la nuora contro la suocera”.
È un passo tanto cristiano quanto poco cattolico (mi si scusi il gioco di parole, a una prima impressione ossimorico, ma così non è), questo di Luca: la famiglia patriarcale, in cui il pater familias era detentore di un potere assoluto, ius vitae ac necis, andava destrutturata, abolita, e perché limitava le libertà femminili, e perché rappresentava il principale ostacolo alla diffusione di un pensiero rivoluzionario, duemila anni fa, quello liberatorio del cristianesimo. Ma successivamente, quanto uscito fragorosamente dal portone, rientrò in silenzio dal retrobottega del paganesimo caucasico, e ce lo ritroviamo ancor oggi, come potere del patriarca, sia esso in abito talare o in gessato grigio. E non poca responsabilità per la permanenza di tale potere patriarcale, che vede nella famiglia la tomba in cui ogni segreto va sepolto, soprattutto in terra lombarda, hanno i due secoli di dominazione spagnola. Il padre di Gertrude non era tal Signore di Leyra, spagnolo, e poi il vero nome di Gertrude non era Virginia Maria, di cui possiamo leggere nel libro del 1986 di Umberto Colombo?
Di qualche decennio più in là, nato quando ancora il suo predecessore era in vita, Luigi Pirandello, siciliano di Girgenti, e quindi anch’egli erede, a suo modo, della civilta spagnolesca, riconfermava l’idea manzoniana della famiglia, e d’ogni altro elemento di natura sociale, come una trappola: “io mi sento preso in questa trappola della morte, che mi ha staccato dal flusso della vita… e mi ha fissato nel tempo, in questo tempo. […]Tu non puoi immaginare l’odio che m’ispirano le cose che vedo, prese con me nella trappola di questo mio tempo… Siamo tanti morti affaccendati, che c’illudiamo di fabbricarci la vita”. (La trappola, novella dalla raccolta omonima del 1915)
Trappola o tomba in cui seppellire ogni segreto, di una tale famiglia come luogo estremo, ridotto d’una difesa morale o immorale (a seconda dei punti di vista), anche nella triste cronaca comasca dei recenti mesi abbiamo avuto la tragica conferma. Dopo la triste vicenda dell’assassino di un giovane commerciante ad opera di un altro commerciante che gli era debitore, il caso Arrighi-Brambilla di cui tanto abbiamo letto e sentito nei notiziari radio e tivvù, abbiamo assistito a un processo stridente di attenuazione della responsabilità dell’assassino: era ricattato, era posto sotto pressione; addirittura, per l’ormai inevitabile postaggio su Facebook, persino la moglie dell’assassino ha pensato di spiegare a suo modo il gesto. È il giusto che si decide a vendicare il mondo, e della cui vendetta terribile ciascuno dovrebbe temere l’ira funesta (per l’appunto, dai tempi di Achille…). Pochi hanno osato esprimere un segno critico: comprensibile che la moglie difenda il marito, ovunque egli si sia condannato a vivere per i prossimi anni. Ma pochi, ancor meno, hanno colto il senso di un familismo che si è ripresentato, oggi come ieri, a contrapporre famiglia a famiglia, clan a clan, e non a caso anche i familiari della vittima non hanno perduto occasione di dimostrarsi esseri d’una famiglia, che “sta crollando sotto il peso di un dolore incontrollabile”. Famiglia come trincea, come luogo della difesa dal dolore, quindi.
Ma davvero non esiste luogo per l’individuo, per la persona a dirla cristianamente?
Sembrerebbe di no. Lo ritiene anche lo studioso americano Edward C. Banfield (Le basi morali di una società arretrata) che conia per l’Italia il concetto di “familismo amorale” secondo cui il comportamento sociale consiste nel «massimizzare i vantaggi materiali e immediati della famiglia nucleare, supporre che tutti gli altri si comportino allo stesso modo». Sono comportamenti non community oriented, propri di chi ha sfiducia nella collettività e non è disposto a cooperare con gli altri. Come è lapalissiano, non esiste il senso civico in.questa cultura: non a caso il milieu di cultura dell’assassino comasco non è quello dell’umanesimo civile, ma il credere, obbedire e combattere di bel altra tradizione.

La mattanza di casa nostra ha quindi per l’ennesima volta svelato il senso di una società priva di civicness, di senso civico, ha ribadito il dis-valore di una vita che si esercita nell’italico vizio del scansare e rintuzzare le proprie responsabilità. Non può essere così, non potrà essere così: un crimine è un crimine, che avvenga dentro la famiglia, o per “difendere” la famiglia da qualche minaccia esterna. Una società dovrebbe riflettere su questa realtà, senza nasconderne la fastidiosa presenza, per affermare una cultura della responsabilità.

Universita’ a Como: saldi d’inizio stagione

Saldi di inizio stagione: l’Università dell’Insubria quindi, a quanto si legge sui quotidiani locali odierni, mira al risultato, e promuove una bella stagione di saldi preventivi, del tipo prendi due e paghi uno, ma soprattutto paghi al secondo anno. Insomma, il marketing irrompe nel disegno strategico di una università in debito d’ossigeno (leggi, di studenti), soprattutto nelle facoltà scientifiche, di scarso appealper studenti neodiplomati alla ricerca di titoli facili ma redditizi.

Come sempre, nella nostra società del presto e subito, vincono i valori dell’impossibilità, l’ossimoro elevato a sistema: si cerca quella via che sia facile e percorribile in scioltezza, ma che allo stesso modo e tempo ci conduca alle vette sublimi del sapere tecnico scientifico o economico, gli unici che possano garantirci successo, ricchezza e potere. Insomma, si cerca l’impossibile. Di fronte all’impossibile, un senato accademico che cosa può fare se non acconciarsi al tempo che corre, alla necessità dei tempi? “Mundus vult decipi”, scriveva T.W. Adorno nei suoi minima moralia (il mondo vuol essere preso in giro), e quindi adeguiamoci a cosa vuole il mondo. Se il mondo non viene a noi, andiamo noi a lui.
Detto fatto, il Senato accademico dell’Insubria decide per il grande saldo d’inizio stagione: dal prossimo anno le matricole che avranno rivolto la loro preferenza ai corsi di studio più ardui, scienze, fisica, matematica; quelli ai quali nei passati anni si sono registrati accessi sempre più ridotti, quasi minimali, avranno un regalo insperato: la tassa d’iscrizione sarà annullata; se ne riparlerà al successivo anno, al secondo, e anche in quel caso allo studente bravo e diligente potranno essere abbuonate l’intera tassa o parte di essa.
È un gesto d’azzardo, o la necessaria conseguenza di un grave rischio, quello di vedersi annullato il corso di studi, se dovesse perseguire la fuga delle matricole da Como per altre università, altrettanto difficili, ma di maggior attrattiva, quali Milano, la Bicocca, altre ancor più distanti? E tale proposta, non avrà forse anche l’ambizione di rivolgere una sorta di rilancio che vada oltre i confini della provincia o dell’aria insubrica, e miri a svolgere il ruolo di attrattore di studenti alla ricerca di bassi costi d’accesso all’università?
Non tutte le idee sono sbagliate, anche quando sono prese in stato di necessità; non tutti gli obiettivi ottenuti sono però conosciuti al momento in cui ci si attiva per ricercarli. Quindi, non si tratta di un’idea malvagia, si tratta di una sfida, di un tentativo: l’università dell’Insubria lancia un sasso nel futuro, vai a sapere se colpirà un target voluto, se cadrà nel vuoto, se tornerà indietro con una notizia negativa?
Di certo, siamo però al prova e vedi come va a finire. Meglio qualcosa che nulla, e così via salmodiando.
La scelta degli sconti preventivi è il prodotto di una liberalizzazione e di una concorrenza sfrenata che si sono avviate tra gli atenei negli ultimi decenni, per ragioni diverse e per il combinato disposto di una serie di gesti legislativi differenti. Il magistero geliminano ha poi dato un colpo d’accelerazione definitivo a questo andazzo: senza alcuni numeri minimi di docenti in ruolo e di studenti iscritti, un corso di studio verrà abolito. Da qui l’emergenzialità dei gesti di promozione “sul territorio”, come andrebbe rubricato il gesto di cui parliamo. Ma occorre capire bene quale debba essere, in ambito universitario, il terreno della concorrenza: se la concorrenza si misuri sul prezzo del servizio, o sulla sua qualità. Non che si voglia dire che solo sul primo o sul secondo dei fattori si debba mirare. Ma allora si dovrebbe capire come mai le università le cui tasse di iscrizione sono molto elevate, Bocconi, Cattolica, università straniere d’eccellenza, siano floride e ricche di iscritti. Il fatto è che quando uno studente cerca un corso di studi, sa che il suo costo andrà catalogato sotto la voce degli investimenti, non dei costi di gestione ordinaria d’un esistenza. Questo spiegherebbe la fortuna (ad esempio molto frequentata negli USA) dell’istituzione del prestito d’onore per le spese universitarie: lo studente che non avrebbe tutte le risorse disponibili per mantenersi agli studi riceve un prestito agevolato, che poi restituirà con detrazioni nei primi stipendi percepiti dopo l’avvio della carriera lavorativa.
Ma oltre al problema relativo alla ricerca di migliori condizioni dell’offerta, la nostra università si è dovuta misurare con un altro tema non secondario, e non si sa, ad oggi, quanto la sua scelta si rivelerà fortunata in un breve periodo: quale è il reale obiettivo di tale offerta straordinaria? Recuperare iscritti o produrre laureati?
Il tema non è secondario: nel vecchio modello universitario, l’altissimo numero di studenti fuori corso, di mai laureati e tuttavia matricolati, contribuì non poco a sostenere anche finanziariamente gli atenei, data la legge dei grandi numeri… Il recente modello ha ridotto il rapporto tra iscritti che conseguono il diploma di laurea e fallimenti formativi accademici. Tuttavia, è pacifico che un alto numero di matricole al primo anno, anche dovuto alla facilitazione economica, potrebbe rappresentare un aiuto per corsi di laurea a rischio di chiusura. Il che fa venire in mente quelle classi elementari di montagna alle quali si iscrivono i nonni degli alunni, per impedire che il ridotto numero di studenti porti a tagliare i plessi scolastici. Sarebbe anche questo un modo per difendere e conservare corsi di laurea importanti per il nostro territorio e poco seguiti dagli studenti.
Avremo del tempo, tre anni al massimo, per comprendere se la mossa d’arrocco del nostro senato accademico si rivelerà una mossa fortunata, o se si sarà dimostrata un ennesimo modo tutto italiano di trovare l’escamotage per aggirare limiti e vincoli onerosi per tutti noi.

Riformisti a Como, piu’ coraggio nel ventennale della caduta del muro

Apparve sul video: la forza rivoluzionaria delle immagini che giungevano da Berlino, la notte del 9 novembre 1089, giunse a me dagli speciali televisivi, dai notiziari che anch’essi attoniti ci diramavano l’incredibile. Giovani e ragazze che gioivano, balzavano sul muro che aveva separato in due famiglie, amici, un intero continente: ballavano e cantavano.

La Storia si mostrava inarrestabile, si dispiegava con un respiro largo anche a chi non si sofferma solitamente nel riflettere sulla storia. Ebbi l’idea certa che quello fosse un momento cruciale, l’aprirsi di un varco nella geopolitica statica del bipolarismo. Ed io, benché la vivessi indirettamente, per tramite televisivo, non ebbi la sensazione di essere solo spettatore, ma anzi mi confermavo la certezza che quel fatto storico interessasse anche me, anzi soprattutto interessasse me e quanti come me partecipavano a un determinato movimento politico, quello della sinistra in Europa, e in Italia il PCI.
La Storia che bussa a casa tua e ti dice: eccomi; solo in un’alta occasione ho avuto l’impressione di questo fenomeno, l’11 settembre 2001, con le immagini delle Twin Towers abbattute a New York. Ma quanto nella Berlino del 1989 la vicenda si mostrava con il segno dell’entusiasmo e della speranza, nella New York di dodici anni dopo era mutato nel terrore e nella violenza.
L’anno, il fatidico 1989, s’era aperto con una grande riflessione sul bicentenario rivoluzionario, dalla Francia di Mitterand si attendeva grandezza e orgoglio liberale. Sui quotidiani, anche quelli più tiepidi verso quel pensiero, si meditava di pensiero liberale e borghese: Marx e il suo portato ideologico, allora più di oggi, sembravano, anche a chi era nel PCI, un repertorio di strumenti teorici arrugginiti, inservibili, arcaici. Si pensi che proprio quel giorno, il 9 novembre, l’Unità, il giornale del PCI, allora diretto da Massimo D’Alema, usciva in edicola con un libretto regalo dedicato al Socialismo liberale e al pensiero di Norberto Bobbio, autore non riconducibile all’ortodossia comunista, tantomeno al suo movimento internazionale o italiano. Era difficile conciliare una tale contorsione ideologica, se non al costo di puntare a un ripensamento di Marx (lo scriveva in quel librino un filosofo del PCI, Umberto Cerroni, uno serio, per intenderci..), male inteso nella sua lettura tradizionale.
Nell’Unione sovietica era in corso l’ultimo tentativo di vivificare la tradizione comunista, ad opera di Mikhail Gorbaciov. A quel tentativo, tanto generoso quanto fallimentare, anche in Italia si rivolsero con speranza i comunisti, che lo appoggiarono politicamente e “senza riserve”, come scrive Paul Ginzborg nel suo L’Italia del tempo presente, edito da Einaudi nel 1998. L’ennesima speranza mal riposta… Proprio Cerroni aveva cercato di spiegare ottimisticamente le magnifiche sorti e progressive del comunismo internazionale sotto la scommessa di Gorbaciov, in un altro librino regalato dall’unità, dal titolo vagamente inquietante (Se vince Gorbaciov): “Forse sta nascendo nell’Urss una originale sfera del pubblico. Di fatto con la perestrojka e con la glasnost si conferisce sempre maggior importanza alla pubblica opinione, ai mezzi di comunicazione, alla cultura politica, alla scienza”. Stupisce oggi, ma anche allora destava qualche sospetto, l’assoluta mancanza di realismo nel discorso dei comunisti italiani, di quel pessimismo dell’intelligenza che pure li aveva contraddistinti in passato.
Vedere quel muro sbriciolato dall’azione distruttrice dei giovani tedeschi dell’Est e dell’Ovest che si ritrovavano dopo quarant’anni di divisione avrebbe dovuto indurre i comunisti italiani a una seria riflessione, fredda, disinteressata, realista. Invece molti si attardarono a difendere quanto non era più difendibile (e la storia successiva lo ha dimostrato ampiamente).
Non è interessante spiegare oggi (non ne sarei neppure capace) le ragioni storiche di quanto accadde venti anni fa. Nel comunismo italiano, anche in coloro che seguirono la svolta di Occhetto, si coltivava la speranza, l’illusione che l’esperienza riformista di Gorbaciov in Urss potesse avere un successo, e così non fu.
Dopo quel 9 novembre, la storia prese a cavalcare, anche in Italia: il 12 novembre Achille Occhetto, segretario generale del PCI, durante un comizio nella sezione di partito della Bolognina pronuncia le parole fatidiche: occorre cambiare, anche il nome del partito. Il 20 novembre, il comitato centrale del PCI indice il XIX congresso nazionale straordinario del PCI, che si tiene a Bologna nel marzo 1990. Nel gennaio 1991, dopo un anno di dibattito e di polemiche, spesso fastidiose e pesanti, il XX e ultimo congresso del PCI ratifica la svolta: nasce il PDS.
A distanza di venti anni, quel lungo e tormentato percorso appare a me che allora avevo ventisette anni come un percorso iniziatico, una faticosa prassi al di fuori della quale tutto sarebbe cambiato, e nulla sarebbe più come prima. Ad altri, sembrò il gesto liquidatorio di una esperienza vitale, ad altri un vero e proprio delitto: si uccideva il padre.
Ma nonostante la buona volontà, persino l’esatta intuizione di Occhetto non sarebbe bastata. Il PCI, neppure allora, giunse “a una sufficiente autonomia politica e intellettuale dal modello sovietico”. Si restava comunque all’interno di una grande famiglia politica, al più nella posizione del familiare eretico, ma sempre interni al movimento comunista internazionale. Di questo si ebbe chiaramente evidenza quando Occhetto chiuse il comitato centrale del novembre 1989: le prime sue parole, veramente commosse, andarono alla figura di Dubcek che parla alla folla di Bratislava 21 anni dopo la repressione sovietica del suo esperimento del socialismo dal volto umano. “Ventuno anni fa condannammo l’invasione sovietica della Cecoslovacchia… siamo lieti di aver combattuto in questi anni per restituire a Dubcek l’onore politico”. Nel rivendicare l’autonomia dei comunisti italiani dall’impero sovietico, tuttavia Occhetto ne ribadiva in quello stesso momento l’appartenenza alla medesima famiglia politica.
Quanto anche a Como accadde più o meno con la medesima intensità che a Roma. Anzi, proprio un comasco, Gianstefano Buzzi, allora faceva parte del comitato centrale del PCI, e intervenne in quel medesimo comitato, senza discostarsi di molto dall’ortodossia comunista: rivendicava l’esigenza di formare “una nuova politica capace di mettere in campo tutto il patrimonio di valori accumulato nell’esperienza e nella tradizione dei comunisti italiani”. Non altro che una rivendicazione della continuità dell’establishment, che doveva al più essere traghettato in un altro contenitore, senza cambiarne i contenuti politici fatti da esperienza, amministrazione, personale politico affidabile e solido. Rammento allora la sofferenza di tanti comunisti, che nella proposta di Occhetto videro la scialuppa di salvataggio di una lunga tradizione politica, che l’accettarono sì, ma per svuotarne il significato dal giorno dopo la sua accettazione.
Il fatto è che anche Occhetto non nascose che questa era la sua urgenza primaria. Nel suo libro Il sentimento e la ragione, dichiara precisamente il senso della sua proposta, della sua svolta: “Ero convinto che il massimo di rottura significava il massimo di salvataggio e di recupero della parte migliore del comunismo italiano”. Egli aveva agito persino nello stile al pari dei suoi predecessori, Togliatti e Berlinguer: con un misto di autorità e autonomia. Si pensi alla Svolta di Salerno o al Compromesso storico. Il segretario impone, il partito, con qualche malumore, si accoda.
Ma questa volta sarebbe stato necessario un maggior coraggio, una spinta all’innovazione più determinata, un coraggio che già ventuno anni prima era mancato, proprio ai tempi dell’invasione di Praga.
Non ci fu.
Eppure quella di Occhetto fu vista da molti, anche a Como, come il massimo di discontinuità allora possibile; nessuno percepì (se non pochi miglioristi, come venivano chiamati allora) che quella tradizione storica del comunismo italiano sarebbe rispuntata fuori, tra polemiche e ammiccamenti, per i decenni successivi, e avrebbe dato ampi margini retorici a chiunque avesse voluto utilizzarla per la polemica politica: i soliti comunisti cui allude ancor oggi Berlusconi, a quanto pare con notevole successo.
Nessuno si rese conto che il paradosso che sembrava tutelare la tradizione eretica del comunismo italiano, e in effetti ne ritardava la fine, stava proprio nel fatto che il comunismo sovietico, io direi il comunismo tout court, cadeva a Berlino, non a Mosca o a Leningrado. In molti si illusero, sinceramente non chi scrive queste note, che le macerie di quella caduta avessero miracolosamente evitato di seppellire la gloriosa esperienza del comunismo italiano.
Quel percorso, ancor oggi, non è completato: le timidezze degli eredi del PCI-PDS-DS ancora appesantiscono la casa comune tirata su con qualche difficoltà con altri, fino a dare vita alla vera novità del Partito democratico.

A Como come a Roma, occorrerà un sovrappiù di coraggio e di altruismo.

Amministrative del 6 e 7 giugno 2009: una prova d’appello per la politica

Non sapremo, se non dopo il 7 giugno, chi avrà vinto in ciascuno dei 109 comuni comaschi in cui si eleggerà il sindaco. Sin d’ora, però, corriamo il rischio di dover decretare uno sconfitto, la politica: la politica, non necessariamente i partiti, i cui esponenti riescono talvolta a dissimulare le proprie appartenenze per insediare uomini nelle istituzioni. E la politica è stata messa in scacco proprio dalla strategia del nascondimento, della dissimulazione di uomini dei partiti entro liste civiche, in alcune delle quali prevalgono una cultura del particolare, spesso negativa, quando non cordate di interessi per lo più immobiliari. La “cultura” del particolare è a parere di chi scrive il vero responsabile della marginalizzazione dei nostri territori, della loro progressiva riduzione di peso politico. E’ vero che talvolta il progetto che sottostà alla formazione di tale liste civiche a-politiche potrebbe definirsi per una neutralità che sfiora i limiti del tecnicismo: ma allora ci si chiede per quale ragione avviene la raccolta del consenso, l’appello al popolo, quando tale appello si camuffa ipocritamente in un tecnicismo che si configura così come l’ultimo, estremo ridotto dell’ipocrisia italica. Tale strategia del nascondimento sembra speculare: è praticata da destra come da sinistra, risponde a una specifica logica, a volte è persino comprensibile e accettabile, comunemente condivisa. La mia non è un’antistorica critica alle liste civiche, sia chiaro. La politica non può essere totalizzante, certo, e non è detto che in un piccolo comune possa esistere un gruppo di amici, di associazioni, che senta il bisogno di partecipare alla gestione della cosa pubblica. Sono molti i comuni in cui questa spinta è positiva anche nella nostra provincia. In altri casi, le ragioni sono meno nobili. Ma non importa, una politica lungimirante potrebbe metabolizzare anche questi comportamenti, persino i comportamenti “pirandelliani” di esponenti del medesimo partito collocati sia in una lista che nella lista contrapposta. E infatti, c’è un elemento su cui una politica coraggiosa non dovrebbe derogare: indurre le liste civiche, o almeno gli esponenti che in esse si impegnano, a prendere una posizione, a schierarsi: con o contro le politiche amministrative della giunta provinciale destra-leghista? A favore o contro le politiche dei servizi assistenziali della Regione formigoniana? Pro o contro le politiche fiscali e distributive del governo nazionale, la soppressione dell’ICI, la riduzione dei trasferimenti ai comuni dal governo nazionale, il quadro di rigido mantenimento del patto di stabilità? E cosa pensano del finto federalismo fiscale privo di strumenti della Lega? Il Partito democratico sta vivendo, anch’esso al pari di altri, questa condizione di travaglio pre-amministrativo, eppure, più di ogni altra forza politica della provincia di Como, avrebbe necessità di chiedere chiarezza, di fare chiarezza anche tra i propri iscritti che aderiranno a liste civiche. Bisogna ridare dignità alla politica, e tale obiettivo diventerebbe irraggiungibile quando persino chi ne potrebbe trarre beneficio, una forza politica che si propone come l’opposizione democratica in questa realtà provinciale, vi rinunciasse per opportunità non ben chiarite o per timore di un giudizio politico momentaneamente non favorevole.

Miseria dell’informazione

Qualche giorno fa, la nave scuola della politica nazionale, la più paludata e miserabile delle trasmissioni televisive (Ma quando il nuovo governo la chiuderà? Domani sarà già tardi…), si è occupata del Liceo Giovio di Como. Gli studenti hanno girato dei filmini pornografici, dicono i giornalisti di Bruno Vespa. E su questo montano un insieme di informazioni a dir poco deludenti. Gli studenti, giustamente, non ci stanno: macché filmini porno, era una goliardata, una cosa cretina, certo, ma senza alcun intento erotico. Mettere in rete quelle riprese può essere stupido, non altro, sicuramente non perverso, come dal salotto buono della RAI hanno voluto far intendere. Informazione sbagliata quindi. Ma ragioniamo: ogni volta che qualcuno dell’informazione nazionale si occupa di cose comasche, compie degli straffalcioni incredibili. Il che ci fa pensare: ma quando si occupano di altre entità territoriali o sociali marginali, allora, compiono le stesse macroscopiche approssimazioni? Questo dovrebbe farci riflettere sulla qualità dell’informazione italiana. Quanto a Bruno Vespa, che meriterebbe di peggio, qualsiasi cosa di lui pensino gli studenti del Liceo scientifico Giovio, aspettiamo che il preside di quell’istituto gli chieda i danni per aver leso l’immagine del suo istituto, e possa ottenerne tanti da poter ristrutturare tutto l’edifico scolastico.