Progetto neomonarchico del presidente Berlusconi: il nuovo re taumaturgo?

C’è un elemento insospettabile nella cultura politica che contraddistingue il circuito di potere che orbita attorno all’attuale governo italiano, e che, a dispetto della sua proclamata appartenenza alla destra populista, proviene dal cuore della contestazione sessantottina: la proclamazione del principio che il privato è politico.
Si tratta di un corto circuito che nei fatti negava allora e nega oggi il liberalismo di Locke, il liberalismo tout court, che del primato del privato sul politico, della società civile su quella politica, fa il proprio punto di partenza e d’arrivo.
Oggi, non sembri paradossale, di questa negazione del primato del privato sul politico si avvantaggia soprattutto il detentore del potere esecutivo, presidente del consiglio, padrone del partito di maggioranza relativa, proprietario e monopolista dell’informazione italiana. Sono troppe, ripetute e molteplici le tracce di tale predilezione: la commistione degli interessi privati con la politica, la cura dei messaggi culturali, il fastidio per i controlli di legittimità e costituzionali che controllano e limitano l’azione di governo, il fastidio per le istituzioni di garanzia, Corte costituzionale e Presidente della Repubblica.. In poche parole, la negazione della cultura liberale classica.
Il giusnaturalismo inglese considera la società un fatto naturale, funzionante per sé, in cui individui ragionevoli perseguono i propri legittimi interessi ed esercitano così i propri diritti naturali. Sono l’economia e l’etica, non la politica, a fondare la base sociale per l’unità degli uomini.
Per la democrazia classica, la società al contrario non è data, non è un prodotto naturale, di azioni individuali spontanee. Essa si produce per la trasformazione degli egoismi in amore verso il tutto sociale, in un patto sociale tra cittadini: quanto più distante dalla deriva berlusconiana, a ben pensare.
Vi è infine un altro pensatore, che invece sembra ben rappresentare tale deriva ed è il Thomas Hobbes (più inquietante, per altro) dell’assolutismo secentesco. La sola comunità tra individui possibile è “quella che si presenta come diritto e politica, limite e comando”. Affinché possa esistere l’etica, la scienza, la vita sociale, è indispensabile che vi sia prima l’unità politica. (Non ricorda il “nulla al di fuori dello Stato”, di più recente memoria?); si legga il De cive di Hobbes, per l’appunto: “Fuori dello stato civile, ciascuno ha una libertà del tutto completa, ma sterile, poiché chi, per la sua libertà, fa tutte le cose a suo arbitrio, per la libertà degli altri patisce tutte le cose, ad arbitrio altrui. Invece, una volta costituito lo Stato, ciascuno dei cittadini conserva tanta libertà, quanta basta per vivere bene e con tranquillità” (X,1)
Sembra di leggere tante delle riflessione che nell’inner circe berlusconiano si sono levate a tutela delle scelte autoritarie e anticostituzionali desiderate dal capo del governo.
Confrontiamo invece con quanto scrive John Locke nel Secondo trattato sul governo (VI, 90): “la monarchia assoluta… è in realtà inconciliabile con la società civile e quindi non può in assoluto essere una forma di governo civile”. Nel sovrano assoluto, scrive Locke si riassume “sia il potere legislativo sia il potere esecutivo. Non vi è dunque giudice né assise che possa con giustizia autorità e imparzialità decidere”. Sembra delineare il progetto di asservimento della magistratura al potere esecutivo accarezzato dall’attuale governo italiano.
Un potere siffatto, che cioè esorbita da organi di controllo e istituzioni di garanzia, assume un significato totalizzante, tale per cui, appunto, anche il privato diviene politico. Ne abbiamo ancor oggi molte manifestazioni esemplari. Lasciamo stare il disegno politico-giornalistico di utilizzare la vita privata degli oppositori politici al fine di infangarne il prestigio (un parlamentare di area governativa ha impunemente richiamato a tal proposito il “trattamento-Boffo”). Si consideri ad esempio l’apparentemente assurda dichiarazioni del potere che si impegna, in prima persona, per sconfiggere le malattie (“debellerò il tumore nel giro di cinque anni”), il che richiama la memoria dei celebri re taumaturghi del Medioevo. Se torniamo ad Hobbes, sempre al già citato De Cive, scopriamo il fondamento teorico che sembra reggere queste e altre, altrimenti incomprensibili, esternazioni governative. La salvezza/salute del popolo è cioè affare del principe: “Tutti i doveri di chi ha il potere sono compresi in questo solo detto: la salute del popolo è la legge suprema”. Hobbes a sua volta riprendeva, con altro scopo, un’antica massima ciceronana (dal De legibus, III, Ollis salus populi suprema lex esto, citata dalle XII tavole). Per salute, continuava più avanti Hobbes, “non si deve intendere soltanto la conservazione della vita, a qualsiasi condizione; ma una vita per quanto possibile felice”.
L’idea che il potere debba stabilire cosa sia una vita felice, come garantirla ai propri sudditi, intromettendosi nella loro sfera privata, è per l’appunto assai distante dal rispetto supremo per le autonomie sociali richiesto dal giusnaturalismo inglese. E rappresenta appunto l’idea che il privato debba essere pubblico, curato e tutelato dalla sfera politica. Sembra di leggere la dichiarazione con cui Silvio Berlusconi addolorato dichiarava: “dovevo intervenire”, riferendosi alla maratona parlamentare per imporre un decreto che interrompesse la libera scelta della famiglia Englaro di staccare dalle macchine la figlia sottoposta a inedito accanimento terapeutico. Appunto, il potere che deve intervenire in una scelta tanto privata e intima.
Insomma, sembra proprio che il De Cive sia diventato, da qualche tempo ad oggi, il manuale teorico di riferimento caro al governo italiano. Una scelta pericolosa, a ben pensarci, confermata da un’ulteriore citazione che sembra calzare, aderente e perfetta, al momento politico della destra di governo.
“Il popolo regna in ogni stato, scrive Hobbes, perché anche nelle monarchie il popolo comanda: infatti, il popolo vuole attraverso la volontà di un solo uomo […] Nella monarchia, i sudditi sono la moltitudine e (per quanto sia un paradosso) il re è il popolo”. L’identificazione del re con il popolo non è forse il modello politico con cui il Presidente del consiglio italiano ha ricercato di affermare un proprio modello di partito politico? Oltretutto, e non a caso a parere di chi scrive, ha deciso di chiamare tale partito “popolo”. Ovvero ciò che “vuole per la volontà di un solo uomo”.
La vicinanza tra la prassi politica operante nell’Italia del 2010 e la teorizzazione hobbesiana di cinquecento anni prima è sconcertante. Verrebbe da pensare, con grande preoccupazione se si è amanti della libertà, che qualcuno tra i consiglieri di palazzo stia compulsando il De Cive di Hobbes, come un manuale di buone pratiche; si gioca, a Palazzo, con un veleno che rischia di intossicarci tutti.

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