Riformisti a Como, piu’ coraggio nel ventennale della caduta del muro

Apparve sul video: la forza rivoluzionaria delle immagini che giungevano da Berlino, la notte del 9 novembre 1089, giunse a me dagli speciali televisivi, dai notiziari che anch’essi attoniti ci diramavano l’incredibile. Giovani e ragazze che gioivano, balzavano sul muro che aveva separato in due famiglie, amici, un intero continente: ballavano e cantavano.

La Storia si mostrava inarrestabile, si dispiegava con un respiro largo anche a chi non si sofferma solitamente nel riflettere sulla storia. Ebbi l’idea certa che quello fosse un momento cruciale, l’aprirsi di un varco nella geopolitica statica del bipolarismo. Ed io, benché la vivessi indirettamente, per tramite televisivo, non ebbi la sensazione di essere solo spettatore, ma anzi mi confermavo la certezza che quel fatto storico interessasse anche me, anzi soprattutto interessasse me e quanti come me partecipavano a un determinato movimento politico, quello della sinistra in Europa, e in Italia il PCI.
La Storia che bussa a casa tua e ti dice: eccomi; solo in un’alta occasione ho avuto l’impressione di questo fenomeno, l’11 settembre 2001, con le immagini delle Twin Towers abbattute a New York. Ma quanto nella Berlino del 1989 la vicenda si mostrava con il segno dell’entusiasmo e della speranza, nella New York di dodici anni dopo era mutato nel terrore e nella violenza.
L’anno, il fatidico 1989, s’era aperto con una grande riflessione sul bicentenario rivoluzionario, dalla Francia di Mitterand si attendeva grandezza e orgoglio liberale. Sui quotidiani, anche quelli più tiepidi verso quel pensiero, si meditava di pensiero liberale e borghese: Marx e il suo portato ideologico, allora più di oggi, sembravano, anche a chi era nel PCI, un repertorio di strumenti teorici arrugginiti, inservibili, arcaici. Si pensi che proprio quel giorno, il 9 novembre, l’Unità, il giornale del PCI, allora diretto da Massimo D’Alema, usciva in edicola con un libretto regalo dedicato al Socialismo liberale e al pensiero di Norberto Bobbio, autore non riconducibile all’ortodossia comunista, tantomeno al suo movimento internazionale o italiano. Era difficile conciliare una tale contorsione ideologica, se non al costo di puntare a un ripensamento di Marx (lo scriveva in quel librino un filosofo del PCI, Umberto Cerroni, uno serio, per intenderci..), male inteso nella sua lettura tradizionale.
Nell’Unione sovietica era in corso l’ultimo tentativo di vivificare la tradizione comunista, ad opera di Mikhail Gorbaciov. A quel tentativo, tanto generoso quanto fallimentare, anche in Italia si rivolsero con speranza i comunisti, che lo appoggiarono politicamente e “senza riserve”, come scrive Paul Ginzborg nel suo L’Italia del tempo presente, edito da Einaudi nel 1998. L’ennesima speranza mal riposta… Proprio Cerroni aveva cercato di spiegare ottimisticamente le magnifiche sorti e progressive del comunismo internazionale sotto la scommessa di Gorbaciov, in un altro librino regalato dall’unità, dal titolo vagamente inquietante (Se vince Gorbaciov): “Forse sta nascendo nell’Urss una originale sfera del pubblico. Di fatto con la perestrojka e con la glasnost si conferisce sempre maggior importanza alla pubblica opinione, ai mezzi di comunicazione, alla cultura politica, alla scienza”. Stupisce oggi, ma anche allora destava qualche sospetto, l’assoluta mancanza di realismo nel discorso dei comunisti italiani, di quel pessimismo dell’intelligenza che pure li aveva contraddistinti in passato.
Vedere quel muro sbriciolato dall’azione distruttrice dei giovani tedeschi dell’Est e dell’Ovest che si ritrovavano dopo quarant’anni di divisione avrebbe dovuto indurre i comunisti italiani a una seria riflessione, fredda, disinteressata, realista. Invece molti si attardarono a difendere quanto non era più difendibile (e la storia successiva lo ha dimostrato ampiamente).
Non è interessante spiegare oggi (non ne sarei neppure capace) le ragioni storiche di quanto accadde venti anni fa. Nel comunismo italiano, anche in coloro che seguirono la svolta di Occhetto, si coltivava la speranza, l’illusione che l’esperienza riformista di Gorbaciov in Urss potesse avere un successo, e così non fu.
Dopo quel 9 novembre, la storia prese a cavalcare, anche in Italia: il 12 novembre Achille Occhetto, segretario generale del PCI, durante un comizio nella sezione di partito della Bolognina pronuncia le parole fatidiche: occorre cambiare, anche il nome del partito. Il 20 novembre, il comitato centrale del PCI indice il XIX congresso nazionale straordinario del PCI, che si tiene a Bologna nel marzo 1990. Nel gennaio 1991, dopo un anno di dibattito e di polemiche, spesso fastidiose e pesanti, il XX e ultimo congresso del PCI ratifica la svolta: nasce il PDS.
A distanza di venti anni, quel lungo e tormentato percorso appare a me che allora avevo ventisette anni come un percorso iniziatico, una faticosa prassi al di fuori della quale tutto sarebbe cambiato, e nulla sarebbe più come prima. Ad altri, sembrò il gesto liquidatorio di una esperienza vitale, ad altri un vero e proprio delitto: si uccideva il padre.
Ma nonostante la buona volontà, persino l’esatta intuizione di Occhetto non sarebbe bastata. Il PCI, neppure allora, giunse “a una sufficiente autonomia politica e intellettuale dal modello sovietico”. Si restava comunque all’interno di una grande famiglia politica, al più nella posizione del familiare eretico, ma sempre interni al movimento comunista internazionale. Di questo si ebbe chiaramente evidenza quando Occhetto chiuse il comitato centrale del novembre 1989: le prime sue parole, veramente commosse, andarono alla figura di Dubcek che parla alla folla di Bratislava 21 anni dopo la repressione sovietica del suo esperimento del socialismo dal volto umano. “Ventuno anni fa condannammo l’invasione sovietica della Cecoslovacchia… siamo lieti di aver combattuto in questi anni per restituire a Dubcek l’onore politico”. Nel rivendicare l’autonomia dei comunisti italiani dall’impero sovietico, tuttavia Occhetto ne ribadiva in quello stesso momento l’appartenenza alla medesima famiglia politica.
Quanto anche a Como accadde più o meno con la medesima intensità che a Roma. Anzi, proprio un comasco, Gianstefano Buzzi, allora faceva parte del comitato centrale del PCI, e intervenne in quel medesimo comitato, senza discostarsi di molto dall’ortodossia comunista: rivendicava l’esigenza di formare “una nuova politica capace di mettere in campo tutto il patrimonio di valori accumulato nell’esperienza e nella tradizione dei comunisti italiani”. Non altro che una rivendicazione della continuità dell’establishment, che doveva al più essere traghettato in un altro contenitore, senza cambiarne i contenuti politici fatti da esperienza, amministrazione, personale politico affidabile e solido. Rammento allora la sofferenza di tanti comunisti, che nella proposta di Occhetto videro la scialuppa di salvataggio di una lunga tradizione politica, che l’accettarono sì, ma per svuotarne il significato dal giorno dopo la sua accettazione.
Il fatto è che anche Occhetto non nascose che questa era la sua urgenza primaria. Nel suo libro Il sentimento e la ragione, dichiara precisamente il senso della sua proposta, della sua svolta: “Ero convinto che il massimo di rottura significava il massimo di salvataggio e di recupero della parte migliore del comunismo italiano”. Egli aveva agito persino nello stile al pari dei suoi predecessori, Togliatti e Berlinguer: con un misto di autorità e autonomia. Si pensi alla Svolta di Salerno o al Compromesso storico. Il segretario impone, il partito, con qualche malumore, si accoda.
Ma questa volta sarebbe stato necessario un maggior coraggio, una spinta all’innovazione più determinata, un coraggio che già ventuno anni prima era mancato, proprio ai tempi dell’invasione di Praga.
Non ci fu.
Eppure quella di Occhetto fu vista da molti, anche a Como, come il massimo di discontinuità allora possibile; nessuno percepì (se non pochi miglioristi, come venivano chiamati allora) che quella tradizione storica del comunismo italiano sarebbe rispuntata fuori, tra polemiche e ammiccamenti, per i decenni successivi, e avrebbe dato ampi margini retorici a chiunque avesse voluto utilizzarla per la polemica politica: i soliti comunisti cui allude ancor oggi Berlusconi, a quanto pare con notevole successo.
Nessuno si rese conto che il paradosso che sembrava tutelare la tradizione eretica del comunismo italiano, e in effetti ne ritardava la fine, stava proprio nel fatto che il comunismo sovietico, io direi il comunismo tout court, cadeva a Berlino, non a Mosca o a Leningrado. In molti si illusero, sinceramente non chi scrive queste note, che le macerie di quella caduta avessero miracolosamente evitato di seppellire la gloriosa esperienza del comunismo italiano.
Quel percorso, ancor oggi, non è completato: le timidezze degli eredi del PCI-PDS-DS ancora appesantiscono la casa comune tirata su con qualche difficoltà con altri, fino a dare vita alla vera novità del Partito democratico.

A Como come a Roma, occorrerà un sovrappiù di coraggio e di altruismo.

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