La famiglia e la recente cronaca comasca: tomba o trappola?

Dopo tanto leggere del caso di cronaca del mese, dopo tanto parlare del gesto del padre che difende a suo modo il proprio tetto, s’è finito col dimenticare il valore delle parole, e dei gesti: a volte i gesti (come le parole) possono sembrare diversi da quello che sono.

Consideriamo un padre, che può apparire premuroso, che pensa al destino della propria figlia, e nel momento in cui l’avvia a un futuro da lei non gradito, s’acconcia a forzarne la volontà, al limite della violenza morale: è il padre della sventurata Gertrude, decimo capitolo dei Promessi sposi di Manzoni, obbligata a prendere l’abito monacale, contro la sua volontà, la sua predisposizione, contro i suoi sogni adolescenziali. Così lo fa parlare l’autore lombardo, e così dimostra quanta grandezza e intelligenza sia nel suo progetto: “V’aspettano, e tutti gli occhi saranno sopra di voi. Dignità e disinvoltura. La badessa vi domanderà cosa volete: è una formalità. Potete rispondere che chiedete d’essere ammessa a vestir l’abito in quel monastero, dove siete stata educata così amorevolmente, dove avete ricevute tante finezze: che è la pura verità. Dite quelle poche parole, con un fare sciolto: che non s’avesse a dire che v’hanno imboccata, e che non sapete parlare da voi. Quelle buone madri non sanno nulla dell’accaduto: è un segreto che deve restar sepolto nella famiglia…”
“Sepolto nella famiglia”: la scelta lessicale, una vera e propria metafora, è indicativa dello stato d’animo e della considerazione che Manzoni ci dà della famiglia: un luogo in cui si possa seppellire un segreto; in una tomba si seppellisce qualcosa; la famiglia come tomba, quindi, in cui fare morire segreti inconfessabili…
Ci rendiamo conto, da questa lettura, della modernità e dell’intuizione a dir poco geniale con cui Manzoni anticipa visioni assai critiche della famiglia che appartengono alla seconda metà del secolo a lui successivo. Non la famiglia ipostatizzata da una propaganda conservatrice, che in essa vede l’ultimo presidio alla conservazione di chissà quali valori. Egli immagina una vita in cui l’uomo si liberi da vincoli e pesi sociali che lo condizionino. È, in questo, quanto mai cristiano, molto più cristiano di quanto non sia il devoto padre della giovane monaca di Monza. Egli legge il vangelo di Luca (12, 49-53) in cui Gesù predica: “Sono venuto a portar fuoco sulla terra, e quanto desidererei che fosse già acceso! […] Credete che io sia venuto a mettere la pace sulla terra? No, io vi dico, ma la divisione. […] Saranno divisi il padre contro il figlio, il figlio contro il padre, la madre contro la figlia, e la figlia contro la madre, la suocera contro la nuora, e la nuora contro la suocera”.
È un passo tanto cristiano quanto poco cattolico (mi si scusi il gioco di parole, a una prima impressione ossimorico, ma così non è), questo di Luca: la famiglia patriarcale, in cui il pater familias era detentore di un potere assoluto, ius vitae ac necis, andava destrutturata, abolita, e perché limitava le libertà femminili, e perché rappresentava il principale ostacolo alla diffusione di un pensiero rivoluzionario, duemila anni fa, quello liberatorio del cristianesimo. Ma successivamente, quanto uscito fragorosamente dal portone, rientrò in silenzio dal retrobottega del paganesimo caucasico, e ce lo ritroviamo ancor oggi, come potere del patriarca, sia esso in abito talare o in gessato grigio. E non poca responsabilità per la permanenza di tale potere patriarcale, che vede nella famiglia la tomba in cui ogni segreto va sepolto, soprattutto in terra lombarda, hanno i due secoli di dominazione spagnola. Il padre di Gertrude non era tal Signore di Leyra, spagnolo, e poi il vero nome di Gertrude non era Virginia Maria, di cui possiamo leggere nel libro del 1986 di Umberto Colombo?
Di qualche decennio più in là, nato quando ancora il suo predecessore era in vita, Luigi Pirandello, siciliano di Girgenti, e quindi anch’egli erede, a suo modo, della civilta spagnolesca, riconfermava l’idea manzoniana della famiglia, e d’ogni altro elemento di natura sociale, come una trappola: “io mi sento preso in questa trappola della morte, che mi ha staccato dal flusso della vita… e mi ha fissato nel tempo, in questo tempo. […]Tu non puoi immaginare l’odio che m’ispirano le cose che vedo, prese con me nella trappola di questo mio tempo… Siamo tanti morti affaccendati, che c’illudiamo di fabbricarci la vita”. (La trappola, novella dalla raccolta omonima del 1915)
Trappola o tomba in cui seppellire ogni segreto, di una tale famiglia come luogo estremo, ridotto d’una difesa morale o immorale (a seconda dei punti di vista), anche nella triste cronaca comasca dei recenti mesi abbiamo avuto la tragica conferma. Dopo la triste vicenda dell’assassino di un giovane commerciante ad opera di un altro commerciante che gli era debitore, il caso Arrighi-Brambilla di cui tanto abbiamo letto e sentito nei notiziari radio e tivvù, abbiamo assistito a un processo stridente di attenuazione della responsabilità dell’assassino: era ricattato, era posto sotto pressione; addirittura, per l’ormai inevitabile postaggio su Facebook, persino la moglie dell’assassino ha pensato di spiegare a suo modo il gesto. È il giusto che si decide a vendicare il mondo, e della cui vendetta terribile ciascuno dovrebbe temere l’ira funesta (per l’appunto, dai tempi di Achille…). Pochi hanno osato esprimere un segno critico: comprensibile che la moglie difenda il marito, ovunque egli si sia condannato a vivere per i prossimi anni. Ma pochi, ancor meno, hanno colto il senso di un familismo che si è ripresentato, oggi come ieri, a contrapporre famiglia a famiglia, clan a clan, e non a caso anche i familiari della vittima non hanno perduto occasione di dimostrarsi esseri d’una famiglia, che “sta crollando sotto il peso di un dolore incontrollabile”. Famiglia come trincea, come luogo della difesa dal dolore, quindi.
Ma davvero non esiste luogo per l’individuo, per la persona a dirla cristianamente?
Sembrerebbe di no. Lo ritiene anche lo studioso americano Edward C. Banfield (Le basi morali di una società arretrata) che conia per l’Italia il concetto di “familismo amorale” secondo cui il comportamento sociale consiste nel «massimizzare i vantaggi materiali e immediati della famiglia nucleare, supporre che tutti gli altri si comportino allo stesso modo». Sono comportamenti non community oriented, propri di chi ha sfiducia nella collettività e non è disposto a cooperare con gli altri. Come è lapalissiano, non esiste il senso civico in.questa cultura: non a caso il milieu di cultura dell’assassino comasco non è quello dell’umanesimo civile, ma il credere, obbedire e combattere di bel altra tradizione.

La mattanza di casa nostra ha quindi per l’ennesima volta svelato il senso di una società priva di civicness, di senso civico, ha ribadito il dis-valore di una vita che si esercita nell’italico vizio del scansare e rintuzzare le proprie responsabilità. Non può essere così, non potrà essere così: un crimine è un crimine, che avvenga dentro la famiglia, o per “difendere” la famiglia da qualche minaccia esterna. Una società dovrebbe riflettere su questa realtà, senza nasconderne la fastidiosa presenza, per affermare una cultura della responsabilità.

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