Cultura a Como, il trionfo del minimale? o del minimalismo?

All’inizio della sua “crestomazia” Leopardi lamentava la separazione, così tipica nella nostra patria letteratura, tra “bellezza del dire” e “importanza dei pensieri e delle cose”. Come negare nella narrativa di questo inizio secolo la presenza della bellezza del dire, e lo sforzo di farla convivere con l’ importanza dei pensieri e delle cose: si pensi alla Bellezza e gli oppressi di Roberto Saviano, ancor prima alla sua Gomorra, non a caso però ispirazione regina di quello sforzo compositivo è d’oltralpe, alla dichiarazione programmatica di Albert Camus, cui però Saviano giunge, ineluttabilmente, per via filosofica, con la meditazione del saggio sulle riflessioni di Salvatore Veca (Feltrinelli 2002) di qualche anno fa, e che portava sin nel titolo proprio la contemporanea fedeltà agli oppressi e alla bellezza.

È il risultato di meditazioni e rimeditazioni di riflessioni che sono per lo più extraletterarie (importanza dei pensieri e delle cose), è il prodotto di esperienze di vita e di sofferenze, è il prodotto di qualche strana combinazione astrale: non si sa. Sta in fatto che in Italia si è ripreso a scrivere come tanto sarebbe piaciuto a Leopardi. E i nomi ci sono, sono tanti, da Tondelli a Lodoli, da Sandro Onofri a Luigi Malerba, da Alberto Arbasino a Vincenzo Cerami, da Vincenzo Consolo a Saviano. (Mi sia permesso una personale debolezza, una caduta nel poliziesco, ma Almost Blue di Lucarelli, ogni volta che lo leggo, continua a piacermi e quindi vuol dire che si tratta di un bel libro, secondo la prova di verifica sperimentale proposta nell’operetta morale Il Parini, della gloria).
Insomma, ci si riavvicina all’Europa, al mondo, tanto coraggioso e eroico. Non è un caso che qualcuno (per quanto forse non tanto a ragione) propone per l’oggi la definizione di una letteratura italiana come “Nie”, acronimo di New Italian Epic, una nuova epica italiana, per quanto poi riesca a rubricare in questa ondata letteraria persino il Neoromantico di Scurati. Forse sarebbe più corretto pensare a una nuova edizione di un realismo non ipocrita e non ottuso, ma queste sono questioni minime.
Che ci si sia resi conto dell’autoinganno (così lo definisce un critico tanto bravo, Filippo La Porta), la vocazione nazionale delle lettere patrie, che proprio Leopardi aveva individuato, come la propensione degli italiani, dai costumi morali e civili assai labili, preferissero non badare alla verità, ma sentirsela raccontare in canto. Ecco la ragione per cui si fosse disposti ad applaudire (ma con quante riserve, pur sempre di prostituta si trattava, per quanto d’alto bordo) le sofferenze di Violetta nella Traviata, ma la lettura del romanzo dal quale le vicende della povera fanciulla erano state tratte, Signora delle camelie, restava negletta, trascurata, ipocritamente cancellata. Appunto, il canto preponderante sul romanzo.
Quindi nell’Italia dei inizio secolo abbandoniamo finalmente quel minimalismo che dai tempi dell’affermarsi postmodernista ci aveva educati alla lettura (ma state tranquilli, gli strascichi minimali non ci abbandonano, non lo faranno mai, come i dischi dei ricchi e poveri, come Pippo Baudo, come Al Bano Carrisi, come i buoni sentimenti di Sanremo). Non che fosse stucco il postmodern, semplicemente era debole: finché fu in vita Calvino, una mente pensante s’assumeva il compito di alimentare e dare un senso al progetto minimo, anzi lo esaltava; ma Italo Calvino è un prodotto dell’evoluzione intellettuale umana di assai rada distribuzione statistica nella linea del tempo (che so, Ariosto, oggi Pamuk, quanti altri?). Scomparso (e ancora rimpianto) lui, che ci è rimasto? Un reggimento di nipotini, che minimalizzano, abbreviano, centopaginizzano; una noia.
Como sembra attardarsi su questo ridotto minimalista? Non saprei, forse. Alcuni segnali lo farebbero immaginare, e tuttavia vale a Como come altrove: meglio un libro minimalista che nulla, meglio una rassegna cinematografica sul nulla che nessuna rassegna cinematografica, e via banalizzando.
Non è sfuggito infatti a nessuno l’odierna presentazione presso la Biblioteca comunale (ma non si tratta di iniziativa della medesima) ad opera dello scrittore lacustre Andrea Vitali di un corso di scrittura creativa, organizzato dall’Università Cattolica di Milano: minimalismo istituzionalizzato? Certo si tratta di uno dei principali filoni universitari degli ultimi tempi: cercare di insegnare a giovani carichi di vitamine e di sentimenti un modo di “liberarsi” (l’espressione la colgo proprio dal sito di presentazione dell’Università milanese) attraverso la scrittura. La scrittura quindi viene presentata come modo per “ordinare la realtà che si vuole capire e per riprodurre i personali stati d’animo”. Si continua a rileggere la lezione di Calvino: l’arte come modo per tracciare la mappa del labirinto avrebbe detto lo scrittore ligure. E infatti il corso che oggi presenterà Viali non lo nasconde: “Questo corso si rivolge a coloro che desiderano uscire dai meandri delle proprie personali esperienze per parlare ad un pubblico di lettori”. Siamo agli epigoni.
Le perplessità di chi scrive oggi questo pezzo sono molteplici: primo, non sarebbe forse meglio partire con un bel corso di lettura, propedeutico a scrivere? I fondamentali: da Dante a Dostoevski?
Ma a prescindere, come diceva Totò, non sa tutto molto di tecnicistico, di compilatorio, di esteriore? Minimale e descrittivo, come tanti bei libri che abbiamo visto e ricevuto, magari ben impacchettati, nelle recenti vacanze natalizie? Uno su tutti, l’ultimo Ammanniti, “Che la festa cominci”, un libro che lascia senza fiato, nel senso deteriore del termine: in cosa questo racconto mi ha cambiato?
E minimale per minimale, che dire dell’imminente quinto festival comasco sul cinema italiano, e il connesso concorso per esordienti “Rivelazioni”? Pulito, lezioso, privo di pugni nello stomaco, discreto come sanno essere i comaschi, un salto indietro nel weekend postmoderno degli anni Ottanta, si potrebbe dire, pur solo leggendo i titoli e i registi coinvolti. Torniamo alla denuncia leopardiana, valida anche al cinema, perché no: coltiviamo a Como il sentimento “della vanità reale delle cose umane e della vita”, non certo la denuncia di una realtà cattiva e cruda; quella preferiamo lasciarla ad altre latitudini, dove la puzza degli migranti di Rosario o il fuoco dei camorristi di Castel di Principe ammorbano l’aria, tanto fine e pulita dalle nostre parti.
Quando cominceremo a misurarci con una realtà che a volte sa essere pesante e assordante? Quando prenderemo in carico che esiste un mondo fatto “dei pensieri e delle cose” di fronte ai quali il paradiso ipocrita dei buoni sentimenti di una volta non funziona più. Propongo, a modello paradigmatico di una letteratura che non ha paura riguardare in faccia una realtà il romanzo Abraham Yehoshua, Fuoco amico. Un israeliano che non ha paura di trovare in quell’espressione ambigua e ipocrita, propria di un paese in guerra, che in un ossimoro nasconde la tragedia, persino i risvolti biblici della terribile figura del dio ebraico, senza paura, senza infingimenti, senza mascheramenti. Quanti corsi di scrittura creativa dovranno seguire i giovani comaschi, prima di apprendere la difficilissima arte di guardare in faccia la realtà?

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