Manuale del cambiamento / 2

Il premio Nobel per la letteratura del 2009, la scrittrice rumeno-tedesca Herta Müller, ha scritto della sua attività letteraria: “Cerco sempre di immaginarmi ai margini dell’avvenimento che sto osservando”. Non è solo una scelta di rispetto per la realtà, ma un modo di guardare al mondo: cercare il nuovo non nel centro focale del nostro campo visivo, ma in limine. È lì, ai margini del nostro sguardo, che possiamo trovare l’inaspettato, un continente nuovo…
Il cambiamento è tornato a far riflettere. A parte gli interventi sulla stampa, lo si impone ad esempio nell’intento dichiarato per il progetto Comonext, di cui la stampa ha raccontato nei giorni passati.
Sembra però che il nostro establishment locale sia intenzionato a fissare, anche in questo ultimo caso, come sempre fatto sin qui, bene al centro del proprio campo visivo: ai margini, non è data speranza. D’altra parte, come non comprendere l’ansia di un povero amministratore, un manager pubblico o privato, un capitano o un caporale d’industria che di fronte al panico di una crisi perfetta si ingegni a misurarsi con i livelli liminari della propria attività? Di fronte alla paura, chi se la sente di affrontare il cambiamento?
Il fatto vero è che il cambiamento si impone contemporaneamente su dimensioni non omogenee: avviene localmente, globalmente e individualmente. A tutte e tre queste dimensioni occorre dare risposte. Dimenticarne una, significa far patire al cambiamento l’imperfezione ironica della storia.
Ad esempio, pensare di beneficiare del cambiamento che avviene a livello globale, e nella formazione individuale, ma poi rifuggire l’ipotesi che il cambiamento si manifesti anche a livello locale è il difetto di fabbrica del pensiero leghista. Pensare che debbano cambiare i modelli locali e globali ma poi immaginare che nulla accada a livello individuale è altra deformazione del modello reazionario che non è disponibile ad accettare che i diritti individuali possano progredire.
Le tre prospettive del cambiamento devono muoversi assieme, quindi, integrate tra loro.
Occorre, quindi, osservare con cura il cambiamento, in formazione, per comprendere come funziona realmente.
Un sociologo canadese, Michael Fullan, nel saggio New Meaning of Educational Change (2001), ne definisce alcuni aspetti: le tipologie del cambiamento (come inizia il cambiamento?); le componenti e i livelli del cambiamento; i fattori chiave nella realizzazione del cambiamento.
Nel concreto: l’origine di una innovazioni può avere diverse fonti e motivazioni. Alcune scelte sono adottate per motivi di opportunità formale, di convenienza, di prestigio, e differiscono da quanto viene realizzato davvero. A volte si adottano cambiamenti che hanno solo valore simbolico, non un valore reale. Noi italiani siamo dei maestri a riguardo. Da quanti anni l’attuale classe dirigente nazionale ci ha promesso una rivoluzione liberale? Sedici? Dalla famosa “discesa in campo” del 1994? Ma siamo sicuri che mai ci arriverà il tanto agognato paradiso dei liberali? Siamo ancora in attesa che la promessa si realizzi! A volte nel cambiamento si nascondono ragioni di sopravvivenza politica o burocratica. Si pensi al modo con cui, a vario titolo, e da varie provenienze politiche, un’intera classe dirigente (a sinistra come a destra) si sia adattata a mutamenti di tipo gattopardesco, pur di salvare il grosso del proprio corpaccione burocratico. Si possono definire questi mutamenti di casacca come un profondo e sincero cambiamento politico? quando riti, deformazioni concettuali, tic e virtù dei vecchi corpi politici si sono riprodotti nel presente?
Nel complesso, il cambiamento ha molteplici dimensioni, che agiscono (possono agire) insieme: nuovi materiali e strumenti tecnologici; nuove teorie politiche; le trasformazioni culturali (profonde) della società. Può accadere che una classe dirigente adoperi nuovi strumenti e tecnologie innovative, senza modificare niente della politica o dei valori culturali profondi. Oppure, può accadere che si miri a cambiamenti di politica e di tecniche ma non si voglia mettere in discussione i valori culturali profondi. Quando una riforma incide veramente nel tessuto sociale, ciò accade perché i cambiamenti si manifestano in ciascuno di quei tre livelli. In quel caso l’innovazione è destinata a sedimentarsi, a restare nella storia. Si pensi alla scelta del 1992, presidente statunitense Bill Clinton, di liberalizzare l’uso della rete Arpanet; per noi, Internet: da quel momento un profondo cambiamento ha agito su tutte e tre le dimensioni: sono cambiati i nostri comportamenti privati, s’è trasformata la politica (si pensi all’elezione di Barak Obama), è mutata nel profondo la nostra cultura.
Il cambiamento incide poi sui comportamenti dei singoli. Per comprenderlo, una variabile cruciale consiste nella misura di come le persone che hanno aderito al cambiamento cercano di applicarne le istanze.
Lo stesso Fullan sviluppa una riflessione che riguarda il cambiamento applicato ai sistemi formativi, ma che può essere estesa a ogni altro elemento della società, e definisce nove fattori che costituiscono un “sistema di variabili collegate” che influenzano il successo del cambiamento: bisogno, chiarezza, complessità, praticabilità, istituzioni locali, comunità, leadership, agenti del cambiamento, potere politico centrale. In un tale quadro, senza una profonda operazione di significazione e di sedimentazione degli aspetti costitutivi del processo di innovazione, nessuno degli interventi che si auspicano per la nostra provincia avrà mai l’effetto di innovare, cambiare, rimuovere le inerzie che la caratterizzano. E tuttavia, una volta raggiunta tale capacità di significazione, occorrerà pure intervenire con gesti concreti. Ne segnalo alcuni, cruciali a parere di chi scrive.
Sono sei idee per il cambiamento profondo, nella nostra provincia.
Il software, anzitutto, e non l’hardware. È una banalità, alcuni diranno, lo leggiamo ovunque, eppure non l’abbiamo ancora capito. I concetti bolsi di cui balbettano molti dei nostri politici locali (una genia particolarmente impreparata tra i nostri comuni) e che possiamo titolare come: “fare rete”, “polo tecnologico”, “lobbying territoriale” attengono ancora all’hardware, non al software. Non è un caso che l’operazione Comonext, pur apprezzabile, si trova davanti a un interrogativo cruciale, sempre lo stesso: apprezzabile, ma cosa ci si mette dentro? Che coerenza troviamo nel promuovere la cultura del folklorico locale, come vorrebbero le tante proloco comunali, con mezzi che partecipano del mondo del futuro?
Secondo tema. Chi effettua il trasferimento tecnologico in una società moderna? Le università, senza dubbio, i centri di ricerca accademica e sperimentazione avanzata (privata o pubblica). Ora, perché continuare a inventare altri poli fittizi, cui destinare risorse che invece vengono ridotte al mondo accademico? Un classe politica seria dovrebbe curare con maggior attenzione la propria università.
Terzo: nonostante un’università, dove studiano le giovani leve, non si può dimenticare che permane drammaticamente il problema della formazione permanente, soprattutto orientata a chi è avanti con l’età. Ma non si può risolvere tutto con un corso per parrucchieri, pasticcieri o operatori CAD. Se si osserva la formazione professionale comasca, non un solo corso è stato ipotizzato in passato per la formazione di alto livello, post diploma o post università. E invece proprio quello è il segmento su cui operare per migliorare i valori della classe dirigente di oggi, non di quella di dopodomani.
Una buona idea, che potrebbe valere “a tempo”, sarebbe quella di attivare una scuola superiore di studi sociali nella nostra realtà. Si tratterebbe di un centro nel quale procedere alla formazione della classe dirigente locale. Alcuni ci hanno tentato, anche recentemente: il PD ha organizzato lo scorso anno un interessante corso per amministratori i cui esiti sono stati però alquanto discussi. In alcuni paesi, i frequentatori del corso si sono trovati a partecipare a elezioni in liste differenti, una contro l’altra armata. E tuttavia, quest’anno non si replica: al suo posto un deludente programma di conferenze di alcuni politici nazionali. Domanda: cosa racconterà ai militanti democratici di Como la ex presidente piemontese Mercedes Bresso?
Evidentemente, un tale onere dovrebbe e potrebbe essere preso in carico da un ente terzo, che potrebbe spendersi con qualche positivo esito in quella direzione.
Quarto tema, che vale anche a Como, come altrove: si tratta di affrontare il digital divide. Il d.v. consiste nell’impreparazione di molti, anziani, non acculturati e altri, nell’uso delle moderne tecnologie informatiche. Molti, ancora troppi, nelle professioni e negli uffici, sono estranei e quasi nemici delle nuove tecnologie. Occorre una vasta, complessa opera di neo alfabetizzazione, a livello basso, per recuperare questo gap tecnologico.
E visto che ci siamo, perché non spingere per la diffusione dell’open source, anziché per i prodotti a pagamento, Windows in primis: e siamo al quinto tema.
Sesta e ultima proposta: siamo italiani, il nostro problema sono le lingue straniere. Nelle scuole, nei posti di lavoro, nelle biblioteche occorre favorire le certificazioni linguistiche. Sono le strumentazioni che permettono di studiare una lingua come lingua moderna, non come un reperto archeologico di altri tempi. Una classe politica seria promuoverebbe, anche con finanziamenti pubblici, una vasta opera di ritorno della società sui banchi di scuola, per non smettere di imparare.

Vorrà una classe dirigente mirare a questi obiettivi? O non preferirà discutere (solamente) di doppia corsia autostradale, di piani regolatori, di licenze urbanistiche, investimenti nel mattone e nell’asfalto? Anche da queste scelte si misura l’intelligenza diffusa di una società.

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