Manuale minimo di cambiamento

Se ne parlava già da tempo, ma sembra che durante il governo della signora Thatcher in Gran Bretagna fosse tornato di moda un famoso adagio, che, a parti rovesciate, potrebbe valere anche per la Como dei giorni nostri: i conservatori hanno realizzato una rivoluzione che non volevano; i rivoluzionari non possono riconoscere che i conservatori abbiano fatto una rivoluzione: da entrambe le parti lo sconcerto e il disorientamento regnano sovrani.
Quella frase disegnava una realtà storica paradossale, ma vera; e soprattutto descriveva una certezza: la Gran Bretagna stava vigorosamente cambiando negli anni ’80, e cambiò molto infatti. A Como, potremmo dirla così: gli innovatori che si proponevano grandi cambiamenti, non hanno cambiato nulla; i conservatori, indispettiti, masticano amaro: avrebbero voluto essere loro a non cambiare alcunché.
Altra certezza, altrettanto vera: da venti anni la provincia di Como, i suoi principali comuni: Como e Cantù, per non parlare della Regione Lombardia, sono saldamente nelle mani di chi (Lega Nord anzitutto) disegna grandi mutamenti istituzionali e politici: il sistema si perpetua invece, graniticamente; cambia sì qualcosa, ma perché nulla cambi. Dall’altra parte, chi avrebbe da guadagnare nel denunciare questo falso cambiamento, non si muove: tanta staticità rappresenterebbe la condizione migliore per una forza politica che farebbe di tutto pur di conquistare finalmente il potere in Lombardia e a Como. Ma niente.
Non succede niente.
Forse sarebbe tanto interessante proporre alla classe politica e dirigenziale in senso lato, all’establishment allargato: sindacale, imprenditoriale, finanziario, professionale, e così via, un vademecum al cambiamento, così, giusto per non perdere confidenza con il concetto; un concetto tanto vagheggiato, poco praticato.
Chi oserebbe oggi negare che viviamo in un momento di grande cambiamento? Non è una frase rituale. In un certo senso, in ogni momento storico accade un qualche cambiamento, ma oggi, e qui, nella fascia pedemontana dall’Italia del Nord, si può ragionare di tale concetto con più pertinenza che altrove.
Il concetto di cambiamento è all’apparenza intuitivo; e quindi si pensa che basti comprendere che c’è per poterlo governare. Errore, errore gravissimo, che la nostra classe dirigente locale ha costantemente praticato. Il concetto di cambiamento non si accorda tanto facilmente con quello di management (inteso in senso banale, non nella sua valenza tecnico-professionale), ma trova maggior rispondenza in quello di leadership (l. diffusa, non dell’unico leader, capo carismatico di tipo peronista…). La metafora è quella dell’esercito: quando un esercito è in pace, lo si affida a dei manager (che sappiano gestire bene l’ordinario, pagare la truppa, far quadrare i bilanci, tenere in ordine gli effettivi); quando un esercito è in guerra lo si affida a dei leader, meglio a una leadership diffusa, che lo guidi e lo motivi. La nostra classe dirigente locale, a destra come a sinistra, è cresciuta nel mito del management (il buon manager, la managerialità, e via declinando), è evidente che oggi risulti inadeguata: ci troviamo infatti in una situazione di grande “conflitto”, di movimento spinto, di tensione sociale. Così, continuando a pronunciare il mantra del management anglosassone: “innovate or die”, il nostro establishment locale ha dissipato credito, tempo e risorse, nonché credibilità, per realizzare quasi nulla.
Due esempi locali, localissimi. Il primo a Cantù: un’amministrazione di destra a traino leghista (sindaco Tiziana Sala) ha deciso di provare l’assalto alla locale Cassa rurale. Si direbbe: con il consenso bulgaro appena conquistato alle elezioni regionali, ogni cosa sarebbe stata facile. Ma no: l’assalto alla cassaforte locale da parte dei politici cittadini si risolve in un flop: il 13 % dei voti dei soci della cooperativa danno credito a quel tentativo di “rinnovamento” (ricordiamoci: “innovate or die”). Cos’è: i canturini si sono tutti convertiti in un mese e hanno rinnegato il loro recente voto? No, semplicemente hanno capito che non hanno a che fare con una classe dirigente vera, una leadership diffusa, ma a qualcuno cui affidare, purché non sia rotto dopo cinque anni, il giocattolo dell’amministrazione comunale. Dei manager, non dei leader: e dei manager neppure troppo colti in cultura del management.
Ben più ferrati dei canturini in cultura manageriale, gli amministratori comaschi: a destra e a sinistra, sono guidati da dottori commercialisti. Verrebbe da dire: andrà meglio sulle rive del lago. E invece no. Una giunta comasca più sciaguattata di quella guidata dal sindaco Bruni non s’era mai vista. Paralizzata, incapace di decidere niente, non ha saputo cambiare proprio nulla. Spendere qualche euro, sì. Ma la sfiducia dei cittadini in questa classe dirigente è oggi palpabile ed evidente. Paratie a lago docent.
Eppure le cosa cambiano. E il loro cambiare è una sfida “mortale” (questa sì) per l’intera comunità locale. In tale cambiamento, non sappiamo altro che usare alcune parole che valgono per noi come esorcismi. La prima è la parola “riforma”: è diventata un imperativo globale. Nel lessico politico è ormai un passe partout. Ma cosa riformare? E poi, a cosa serve la riforma se non si accompagna a una cultura riformista? La seconda parola è “sviluppo tecnologico”: non sempre le riforme riescono a interpretare i cambiamenti delle tecnologie, che comunque proseguono a prescindere dall’azione dei politici. Addirittura, alcuni sociologi (E. Hoyle e M. Fallace, Londra 2005) hanno coniato il termine di “ironia delle riforme”: si tratta di quelle iniziative legislative che a volte hanno esiti opposti a quelli dichiarati. Si pensi al tentativo dei nostri amministratori di sottoporre le città al controllo totale: ovunque telecamere; poi però le telecamere si guastano e non ci sono i soldi per ripararle; non c’è personale da mettere dietro a quelle telecamere, e la spesa quindi si rivela inutile; oppure, si pensi alla legge Bossi-Fini che avrebbe dovuto bloccare l’immigrazione clandestina, ma si è risolta alla fine nel realizzare la più grande regolarizzazione di immigrati clandestini in Italia: un milione in pochi anni!
Pertanto, prima regola per chi voglia misurarsi con il cambiamento: anzitutto procedere nell’esame delle “conseguenze inattese”. Serve per misurare il successo delle riforme rispetto agli obiettivi che si prefiggevano. Una conseguenza di questo obiettivo, che però non è stata sufficientemente considerata, tanto che non la si riesce a praticare, è che esso prevederebbe una completa ridefinizione del modello amministrativo che oggi prevale nel nostro sistema politico. Per scrivere riforme o ordinanze innovative basta un po’ di fantasia, un dirigente che pratichi il diritto amministrativo, e spesso un po’ di faccia tosta (si pensi al numero verde per la denuncia dei clandestini a Cantù, ad esempio…). Ma per misurare l’insieme delle conseguenze inattese, occorre molto di più: capacità d’ascolto, sedi di confronto largo e allargato, intelligenza prospettica. Una serie di facoltà che difettano tra i nostri politici e nell’insieme della classe dirigente locale intesa senso latu.
A seguire, ecco la seconda regola del manuale minimo del cambiamento. Se volete misurarvi con esso, cercate un “modello di gestione del cambiamento”. Si tratta di costruire un approccio al cambiamento, che esisterebbe a prescindere dal fatto che una società decida o meno di misurarsi con esso. In altri termini, si tratta di comprendere le dinamiche che nascono dall’incontro tra idee globali e tradizioni storiche e culturali del nostro contesto. Non che in passato non ci si sia misurati con l’arrivo delle idee nuove: c’è stata la fase dell’”efficacia interna”, quando si pianificava un lavoro politico sulla base di obiettivi politici accettati e condivisi. Qui serviva una politica manageriale (e paradossalmente è stata la fase in cui le forze politiche di centro sinistra hanno dato il meglio di sé). Poi è stata la volta dell’”efficacia esterna”: ci si rende conto che una buona politica non deve solo limitarsi ai suoi processi interni, ma deve considerare i portatori di interessi che le sono esterni, la società complessivamente intesa (in questa fase si comincia a parlare di stakeholders; tra parentesi, a sinistra, nella nostra zona, non se ne sono ancora accorti). A questa fase inizia ad associarsi una riduzione delle risorse finanziarie del sistema sociale messe a disposizione della politica. Si punta quindi su una superiore qualità della politica, ma i risultati a quanto pare non sono all’altezza: come conciliare questi obiettivi, di cui pure le amministrazioni di destra della nostra provincia avevano assunto l’onere, con i risultati ottenuti? I costi della politica, che avrebbero dovuto abbattere, sono aumentati. La privatizzazione dei servizi è avvenuta, certo, ma in un contesto di mancata liberalizzazione, per cui oggi abbiamo servizi esercitati in modo privatistico, ma in un regime di monopolio. Oltre al danno, la beffa (i servizi costano troppo).
La sfida lanciata alla politica a fine secolo scorso (a Como esercitata dalla sola destra, dato che l’altra parte è rimasta sostanzialmente marginalizzata), sfida di misurarsi con l’insieme dei portatori di interessi, è oggi sostanzialmente irrisolta: la nostra classe dirigente è stata inadeguata a questi compiti, soprattutto per difficoltà relazionali. E già si prefigura una terza fase, quella dell’”efficacia futura” (ne parla un sociologo cinese, Y.C. Cheng, di Honk Kong, 2000). Si fonda su questa domanda: “la qualità di oggi… è in grado di produrre effetti abbastanza duraturi da mettere le nuove generazioni in condizione di fronteggiare le sfide del nuovo millennio?”.
Ma questo è un tema davvero improbo per la nostra classe dirigente locale. A qualsiasi condizione si rifaccia, in qualsiasi parte politica si produca, siamo di fronte a una generazione di dirigenti politici, sindacali, manager, professionisti e così via, che a malapena si pongono i problemi dell’oggi; come faranno mai a porsi i temi del domani? Torniamo a Como: come farà la giunta Bruni, con quale energie psichiche e quali risorse culturali, a progettare interventi che vadano al di là della prossima seduta del consiglio comunale? O della imminente esondazione del lago?
Per non dire della classe dirigente provinciale, politici in testa, con la Lega di Carioni sopra tutti: esiste ancora? Ha qualcosa da dire? Dovremo evocarla in qualche seduta spiritica?
E qui abbiamo la terza regola del manuale minimo del cambiamento. Alla classe politica locale necessiterebbe, sopra di tutto, molto, molto studio. Dovrebbero tornare tra i banchi: consiglieri, assessori e dirigenti pubblici; ma anche sindacalisti, manager, professionisti e così via. Vi sono studi sociologici, statistici, tecnologici, scientifici, nuove teorie politiche da conoscere, comprendere e meditare, cercando di coniugarli alla nostra specificità territoriale: li studino!
Alternativa: continuare così, non muoversi, subire passivamente i cambiamenti che il mondo ci imporrà; tanto, a consolarci, ci sarà sempre un George Clooney che prenda casa a Blevio e ci confermi che il lago, dopotutto, è proprio un bel posto in cui vivere.

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