Libera repubblica di Albate

Dovranno pure fermarsi, prima o poi, le “provocazioni” edificanti della nostra classe dirigente.

Quando i candidati alle prossime elezioni regionali si recheranno ad Albate, quartiere di Como, per un’iniziativa elettorale, sappiano sin d’ora come dovranno atteggiarsi: con un sorriso benevolo e accogliente verso l’ultima frontiera del discorso politico comasco, accarezzata da destra come da sinistra, equanimemente, e apprezzata a quanto pare dai cittadini del piccolo quartiere cittadino.
Secessione, secessione: è il nuovo urlo che promana dal consiglio comunale di Como.
La storia, magistralmente, è rievocata su l’Ordine di ieri.
Nel 1943 Albate è annessa alla città di Como, con essa altre località marginali del capoluogo vi sono aggiunte. Nasce la possibilità di dare vita a un grande capoluogo: scommessa perduta.
Dopo la nascita della Repubblica, Como è colpita dalla sindrome secessionista. Aveva già perduto la provincia di Sondrio, poi perde la provincia di Varese, in seguito la provincia di Lecco saluta e si mette a sé. La grandezza del capoluogo che fu, un tempo, una vera e propria marca di confine, svanisce in un continuo svilimento di territori, forze economiche, demografiche e culturali. Un disastro. E a quanto pare, la sindrome della secessione, così entusiasticamente alimentata dalla propaganda leghista negli ultimi anni, oggi colpisce la città di Como, come una nemesi storica.
“La secessione? Un’ipotesi come le altre” diceva in un’intervista il Bossi ancora nel 2007, non dieci anni fa.
E ora, fresco come un quarto di pollo, prima un consigliere comunale della minoranza, poi uno della maggioranza se ne escono rivendicando per il quartiere di Albate il diritto alla secessione. Risposta entusiastica dei cittadini albatesi, a quanto pare…
Così con un bel referendum cittadino si potrà decidere se sottrarre i tributi albatesi alle casse del comune di Como, a quanto pare assetate di euro, per giungere al che permetterebbero persino la cementificazione dell’oasi del Bassone, pur di incassare i tanto sperati oneri di urbanizzazione, unica risorsa in grado ormai di rimpinguare le casse comunali.
Una prima notazione, chissà se qualcuno se la sarà rammentata? Ma sino a due anni fa i comuni godevano dell’unica risorsa finanziaria di natura federale, che permetteva loro entrate significative ma non troppo onerose per i cittadini: l’ICI. Il governo che più di tutti ha sbandierato l’ipotesi federale, perché ha al suo interno la Lega, partito localista per eccellenza, ha pensato di abolirla l’ICI, e di lasciare i comuni in braghe di tela. Da qui tutto un arrangiarsi con tasse di scopo, spazzatura, gas, multe agli automobilisti e per l’appunto oneri di urbanizzazione.
La classe politica locale ha già dimenticato quel passaggio, e ora finge di non rammentare che quella tassa federale sarebbe molto meglio di tante invenzioni contabili di matrice fantastica?
Ma c’è anche una divertente riflessione da sviluppare sulla deriva di una classe politica locale che ora finge di non capire. Si promuovono a livello macroscopico, su scala continentale, la nascita di uno spazio giuridico continentale, di uno spazio militare e politico unificati; si promuove anche a livello micro la nascita di unioni di comuni, per favorire l’aggregazione di porzioni amministrative ormai risibili sul piano locale (comunelli di centinaia di abitanti che non sono in grado di fornire servizi se non consorziati): l’unione dei comuni della Tremezzina ne è un esempio, lampante, ed efficace oltre che efficiente. E a Como, dove, a quanto pare, una miopia politica grave ha colto buona parte della classe dirigente cittadina, ci si balocca con idee di separazione che non si capisce se servano ai cittadini o a chi le promuove.
L’idea è buona, quanto a precedenti. Ha lontane origini nella secessione del popolo romano (Eutropio: sedici anni dopo la cacciata dei re, il popolo fece sedizione, come se fosse oppresso dal Senato e dai consoli): siamo nel 494 avanti Cristo e proprio i plebei non ce la fanno più a sottostare alle pressioni dei patrizi, ma si tratta soprattutto di diritti politici negati, non di oneri d’urbanizzazione e di valori immobiliari… Da lì, è tutta una sequela di secessioni tentate e riuscite. Una tra quelle non riuscite, quella americana di metà Ottocento: quante centinaia di migliaia di morti per non raggiungere nulla. Ma almeno ci provarono i Confederati a staccarsi da un’Unione considerata accentratrice e tiranna…E poi la secessione riuscita della Slovacchia dalla repubblica Ceca, e quella sanguinosa di tutti contro tutti nella ex Yugoslavia. Ora siamo all’epilogo comasco.
Un politico “fino” come Rapinese lancia l’idea: ma separiamoci da Como, così saremo in grado di meglio governare i nostri tributi. Sempre lì va l’accento. Non ai diritti, ai doveri mancati, ma al soldo. Quasi che in quella dimensione vi fosse tutto, l’alfa e l’omega della nostra politica. Il che la rende una politica misera, proprio perché non pensa che a quello, ai soldi.
Ma hanno pensato Rapinese, Rudilosso e altri interessati alla faccenda, che potrebbe anche accadere che, raggiunta la secessione, qualcuno, magari interessato al formidabile bacino elettorato della frazione di Olmeda, possa bandire, raggiunta l’autonomia, una nuova secessione, questa volta dal comune di Albate? E che dire se gli abitanti di via Acquanera un giorno decidessero che le loro tasse le vogliono proprio spese nella loro via, e decidessero a loro volta la secessione dal mondo?
Ora a noi può far ridere. Ma si tratta di questione molto seria, studiata e valutata con attenzione da ricercatori del sociale seri e preparati, che indagano il buco oscuro, e a quanto pare senza fondo, nel quale la società italiana si è infilata.
Classi politiche furbe quanto miopi, accarezzano istinti primordiali, definiti identitari, al fine di consolidare potere e consenso. Si comincia con i meridionali, si procede con gli extracomunitari, si finisce con gli abitanti di piazza Cavour. Per consolidare questo obiettivo, ci si costruisce differenze culturali, magari etniche o razziali. E va bene cercarne con chi viene da miglia di chilometri di distanza, ma con chi abita in via Dante, non risulterà più difficile?
L’importante, come scrive un importante antropologo francese, Jean Pouillon, è non sbarazzarsi di una storia, purché sia: “le società moderne manipolano il loro passato in funzione dei loro bisogni presenti”. Ciò fatto, costruita una “cultura” per questi obiettivi di bassissimo valore, il gioco è completato.
Ora, viene da domandarsi, se cittadini tanto seri e responsabili siano coscienti di quanto abbiano prodotto in termini di rappresentanza politica, e se non venga loro il desiderio di un profondo ripensamento della propria delega.

Una memoria storica, per concludere: l’ultimo bilancio che registrò tra le uscite le quote di spesa pubblica del comune di Como suddivise per circoscrizioni fu presentato dalla giunta di Renzo Pigni, era assessore al bilancio Emilio Russo. Da allora, gli amministratori hanno dimesso questa bella prova di trasparenza: che ciascuno sappia quanto, in termini percentuali si spenda in opere pubbliche quartiere per quartiere. Non sarebbe una bella idea riproporlo?

La famiglia e la recente cronaca comasca: tomba o trappola?

Dopo tanto leggere del caso di cronaca del mese, dopo tanto parlare del gesto del padre che difende a suo modo il proprio tetto, s’è finito col dimenticare il valore delle parole, e dei gesti: a volte i gesti (come le parole) possono sembrare diversi da quello che sono.

Consideriamo un padre, che può apparire premuroso, che pensa al destino della propria figlia, e nel momento in cui l’avvia a un futuro da lei non gradito, s’acconcia a forzarne la volontà, al limite della violenza morale: è il padre della sventurata Gertrude, decimo capitolo dei Promessi sposi di Manzoni, obbligata a prendere l’abito monacale, contro la sua volontà, la sua predisposizione, contro i suoi sogni adolescenziali. Così lo fa parlare l’autore lombardo, e così dimostra quanta grandezza e intelligenza sia nel suo progetto: “V’aspettano, e tutti gli occhi saranno sopra di voi. Dignità e disinvoltura. La badessa vi domanderà cosa volete: è una formalità. Potete rispondere che chiedete d’essere ammessa a vestir l’abito in quel monastero, dove siete stata educata così amorevolmente, dove avete ricevute tante finezze: che è la pura verità. Dite quelle poche parole, con un fare sciolto: che non s’avesse a dire che v’hanno imboccata, e che non sapete parlare da voi. Quelle buone madri non sanno nulla dell’accaduto: è un segreto che deve restar sepolto nella famiglia…”
“Sepolto nella famiglia”: la scelta lessicale, una vera e propria metafora, è indicativa dello stato d’animo e della considerazione che Manzoni ci dà della famiglia: un luogo in cui si possa seppellire un segreto; in una tomba si seppellisce qualcosa; la famiglia come tomba, quindi, in cui fare morire segreti inconfessabili…
Ci rendiamo conto, da questa lettura, della modernità e dell’intuizione a dir poco geniale con cui Manzoni anticipa visioni assai critiche della famiglia che appartengono alla seconda metà del secolo a lui successivo. Non la famiglia ipostatizzata da una propaganda conservatrice, che in essa vede l’ultimo presidio alla conservazione di chissà quali valori. Egli immagina una vita in cui l’uomo si liberi da vincoli e pesi sociali che lo condizionino. È, in questo, quanto mai cristiano, molto più cristiano di quanto non sia il devoto padre della giovane monaca di Monza. Egli legge il vangelo di Luca (12, 49-53) in cui Gesù predica: “Sono venuto a portar fuoco sulla terra, e quanto desidererei che fosse già acceso! […] Credete che io sia venuto a mettere la pace sulla terra? No, io vi dico, ma la divisione. […] Saranno divisi il padre contro il figlio, il figlio contro il padre, la madre contro la figlia, e la figlia contro la madre, la suocera contro la nuora, e la nuora contro la suocera”.
È un passo tanto cristiano quanto poco cattolico (mi si scusi il gioco di parole, a una prima impressione ossimorico, ma così non è), questo di Luca: la famiglia patriarcale, in cui il pater familias era detentore di un potere assoluto, ius vitae ac necis, andava destrutturata, abolita, e perché limitava le libertà femminili, e perché rappresentava il principale ostacolo alla diffusione di un pensiero rivoluzionario, duemila anni fa, quello liberatorio del cristianesimo. Ma successivamente, quanto uscito fragorosamente dal portone, rientrò in silenzio dal retrobottega del paganesimo caucasico, e ce lo ritroviamo ancor oggi, come potere del patriarca, sia esso in abito talare o in gessato grigio. E non poca responsabilità per la permanenza di tale potere patriarcale, che vede nella famiglia la tomba in cui ogni segreto va sepolto, soprattutto in terra lombarda, hanno i due secoli di dominazione spagnola. Il padre di Gertrude non era tal Signore di Leyra, spagnolo, e poi il vero nome di Gertrude non era Virginia Maria, di cui possiamo leggere nel libro del 1986 di Umberto Colombo?
Di qualche decennio più in là, nato quando ancora il suo predecessore era in vita, Luigi Pirandello, siciliano di Girgenti, e quindi anch’egli erede, a suo modo, della civilta spagnolesca, riconfermava l’idea manzoniana della famiglia, e d’ogni altro elemento di natura sociale, come una trappola: “io mi sento preso in questa trappola della morte, che mi ha staccato dal flusso della vita… e mi ha fissato nel tempo, in questo tempo. […]Tu non puoi immaginare l’odio che m’ispirano le cose che vedo, prese con me nella trappola di questo mio tempo… Siamo tanti morti affaccendati, che c’illudiamo di fabbricarci la vita”. (La trappola, novella dalla raccolta omonima del 1915)
Trappola o tomba in cui seppellire ogni segreto, di una tale famiglia come luogo estremo, ridotto d’una difesa morale o immorale (a seconda dei punti di vista), anche nella triste cronaca comasca dei recenti mesi abbiamo avuto la tragica conferma. Dopo la triste vicenda dell’assassino di un giovane commerciante ad opera di un altro commerciante che gli era debitore, il caso Arrighi-Brambilla di cui tanto abbiamo letto e sentito nei notiziari radio e tivvù, abbiamo assistito a un processo stridente di attenuazione della responsabilità dell’assassino: era ricattato, era posto sotto pressione; addirittura, per l’ormai inevitabile postaggio su Facebook, persino la moglie dell’assassino ha pensato di spiegare a suo modo il gesto. È il giusto che si decide a vendicare il mondo, e della cui vendetta terribile ciascuno dovrebbe temere l’ira funesta (per l’appunto, dai tempi di Achille…). Pochi hanno osato esprimere un segno critico: comprensibile che la moglie difenda il marito, ovunque egli si sia condannato a vivere per i prossimi anni. Ma pochi, ancor meno, hanno colto il senso di un familismo che si è ripresentato, oggi come ieri, a contrapporre famiglia a famiglia, clan a clan, e non a caso anche i familiari della vittima non hanno perduto occasione di dimostrarsi esseri d’una famiglia, che “sta crollando sotto il peso di un dolore incontrollabile”. Famiglia come trincea, come luogo della difesa dal dolore, quindi.
Ma davvero non esiste luogo per l’individuo, per la persona a dirla cristianamente?
Sembrerebbe di no. Lo ritiene anche lo studioso americano Edward C. Banfield (Le basi morali di una società arretrata) che conia per l’Italia il concetto di “familismo amorale” secondo cui il comportamento sociale consiste nel «massimizzare i vantaggi materiali e immediati della famiglia nucleare, supporre che tutti gli altri si comportino allo stesso modo». Sono comportamenti non community oriented, propri di chi ha sfiducia nella collettività e non è disposto a cooperare con gli altri. Come è lapalissiano, non esiste il senso civico in.questa cultura: non a caso il milieu di cultura dell’assassino comasco non è quello dell’umanesimo civile, ma il credere, obbedire e combattere di bel altra tradizione.

La mattanza di casa nostra ha quindi per l’ennesima volta svelato il senso di una società priva di civicness, di senso civico, ha ribadito il dis-valore di una vita che si esercita nell’italico vizio del scansare e rintuzzare le proprie responsabilità. Non può essere così, non potrà essere così: un crimine è un crimine, che avvenga dentro la famiglia, o per “difendere” la famiglia da qualche minaccia esterna. Una società dovrebbe riflettere su questa realtà, senza nasconderne la fastidiosa presenza, per affermare una cultura della responsabilità.

Universita’ a Como: saldi d’inizio stagione

Saldi di inizio stagione: l’Università dell’Insubria quindi, a quanto si legge sui quotidiani locali odierni, mira al risultato, e promuove una bella stagione di saldi preventivi, del tipo prendi due e paghi uno, ma soprattutto paghi al secondo anno. Insomma, il marketing irrompe nel disegno strategico di una università in debito d’ossigeno (leggi, di studenti), soprattutto nelle facoltà scientifiche, di scarso appealper studenti neodiplomati alla ricerca di titoli facili ma redditizi.

Come sempre, nella nostra società del presto e subito, vincono i valori dell’impossibilità, l’ossimoro elevato a sistema: si cerca quella via che sia facile e percorribile in scioltezza, ma che allo stesso modo e tempo ci conduca alle vette sublimi del sapere tecnico scientifico o economico, gli unici che possano garantirci successo, ricchezza e potere. Insomma, si cerca l’impossibile. Di fronte all’impossibile, un senato accademico che cosa può fare se non acconciarsi al tempo che corre, alla necessità dei tempi? “Mundus vult decipi”, scriveva T.W. Adorno nei suoi minima moralia (il mondo vuol essere preso in giro), e quindi adeguiamoci a cosa vuole il mondo. Se il mondo non viene a noi, andiamo noi a lui.
Detto fatto, il Senato accademico dell’Insubria decide per il grande saldo d’inizio stagione: dal prossimo anno le matricole che avranno rivolto la loro preferenza ai corsi di studio più ardui, scienze, fisica, matematica; quelli ai quali nei passati anni si sono registrati accessi sempre più ridotti, quasi minimali, avranno un regalo insperato: la tassa d’iscrizione sarà annullata; se ne riparlerà al successivo anno, al secondo, e anche in quel caso allo studente bravo e diligente potranno essere abbuonate l’intera tassa o parte di essa.
È un gesto d’azzardo, o la necessaria conseguenza di un grave rischio, quello di vedersi annullato il corso di studi, se dovesse perseguire la fuga delle matricole da Como per altre università, altrettanto difficili, ma di maggior attrattiva, quali Milano, la Bicocca, altre ancor più distanti? E tale proposta, non avrà forse anche l’ambizione di rivolgere una sorta di rilancio che vada oltre i confini della provincia o dell’aria insubrica, e miri a svolgere il ruolo di attrattore di studenti alla ricerca di bassi costi d’accesso all’università?
Non tutte le idee sono sbagliate, anche quando sono prese in stato di necessità; non tutti gli obiettivi ottenuti sono però conosciuti al momento in cui ci si attiva per ricercarli. Quindi, non si tratta di un’idea malvagia, si tratta di una sfida, di un tentativo: l’università dell’Insubria lancia un sasso nel futuro, vai a sapere se colpirà un target voluto, se cadrà nel vuoto, se tornerà indietro con una notizia negativa?
Di certo, siamo però al prova e vedi come va a finire. Meglio qualcosa che nulla, e così via salmodiando.
La scelta degli sconti preventivi è il prodotto di una liberalizzazione e di una concorrenza sfrenata che si sono avviate tra gli atenei negli ultimi decenni, per ragioni diverse e per il combinato disposto di una serie di gesti legislativi differenti. Il magistero geliminano ha poi dato un colpo d’accelerazione definitivo a questo andazzo: senza alcuni numeri minimi di docenti in ruolo e di studenti iscritti, un corso di studio verrà abolito. Da qui l’emergenzialità dei gesti di promozione “sul territorio”, come andrebbe rubricato il gesto di cui parliamo. Ma occorre capire bene quale debba essere, in ambito universitario, il terreno della concorrenza: se la concorrenza si misuri sul prezzo del servizio, o sulla sua qualità. Non che si voglia dire che solo sul primo o sul secondo dei fattori si debba mirare. Ma allora si dovrebbe capire come mai le università le cui tasse di iscrizione sono molto elevate, Bocconi, Cattolica, università straniere d’eccellenza, siano floride e ricche di iscritti. Il fatto è che quando uno studente cerca un corso di studi, sa che il suo costo andrà catalogato sotto la voce degli investimenti, non dei costi di gestione ordinaria d’un esistenza. Questo spiegherebbe la fortuna (ad esempio molto frequentata negli USA) dell’istituzione del prestito d’onore per le spese universitarie: lo studente che non avrebbe tutte le risorse disponibili per mantenersi agli studi riceve un prestito agevolato, che poi restituirà con detrazioni nei primi stipendi percepiti dopo l’avvio della carriera lavorativa.
Ma oltre al problema relativo alla ricerca di migliori condizioni dell’offerta, la nostra università si è dovuta misurare con un altro tema non secondario, e non si sa, ad oggi, quanto la sua scelta si rivelerà fortunata in un breve periodo: quale è il reale obiettivo di tale offerta straordinaria? Recuperare iscritti o produrre laureati?
Il tema non è secondario: nel vecchio modello universitario, l’altissimo numero di studenti fuori corso, di mai laureati e tuttavia matricolati, contribuì non poco a sostenere anche finanziariamente gli atenei, data la legge dei grandi numeri… Il recente modello ha ridotto il rapporto tra iscritti che conseguono il diploma di laurea e fallimenti formativi accademici. Tuttavia, è pacifico che un alto numero di matricole al primo anno, anche dovuto alla facilitazione economica, potrebbe rappresentare un aiuto per corsi di laurea a rischio di chiusura. Il che fa venire in mente quelle classi elementari di montagna alle quali si iscrivono i nonni degli alunni, per impedire che il ridotto numero di studenti porti a tagliare i plessi scolastici. Sarebbe anche questo un modo per difendere e conservare corsi di laurea importanti per il nostro territorio e poco seguiti dagli studenti.
Avremo del tempo, tre anni al massimo, per comprendere se la mossa d’arrocco del nostro senato accademico si rivelerà una mossa fortunata, o se si sarà dimostrata un ennesimo modo tutto italiano di trovare l’escamotage per aggirare limiti e vincoli onerosi per tutti noi.

Riformisti a Como, piu’ coraggio nel ventennale della caduta del muro

Apparve sul video: la forza rivoluzionaria delle immagini che giungevano da Berlino, la notte del 9 novembre 1089, giunse a me dagli speciali televisivi, dai notiziari che anch’essi attoniti ci diramavano l’incredibile. Giovani e ragazze che gioivano, balzavano sul muro che aveva separato in due famiglie, amici, un intero continente: ballavano e cantavano.

La Storia si mostrava inarrestabile, si dispiegava con un respiro largo anche a chi non si sofferma solitamente nel riflettere sulla storia. Ebbi l’idea certa che quello fosse un momento cruciale, l’aprirsi di un varco nella geopolitica statica del bipolarismo. Ed io, benché la vivessi indirettamente, per tramite televisivo, non ebbi la sensazione di essere solo spettatore, ma anzi mi confermavo la certezza che quel fatto storico interessasse anche me, anzi soprattutto interessasse me e quanti come me partecipavano a un determinato movimento politico, quello della sinistra in Europa, e in Italia il PCI.
La Storia che bussa a casa tua e ti dice: eccomi; solo in un’alta occasione ho avuto l’impressione di questo fenomeno, l’11 settembre 2001, con le immagini delle Twin Towers abbattute a New York. Ma quanto nella Berlino del 1989 la vicenda si mostrava con il segno dell’entusiasmo e della speranza, nella New York di dodici anni dopo era mutato nel terrore e nella violenza.
L’anno, il fatidico 1989, s’era aperto con una grande riflessione sul bicentenario rivoluzionario, dalla Francia di Mitterand si attendeva grandezza e orgoglio liberale. Sui quotidiani, anche quelli più tiepidi verso quel pensiero, si meditava di pensiero liberale e borghese: Marx e il suo portato ideologico, allora più di oggi, sembravano, anche a chi era nel PCI, un repertorio di strumenti teorici arrugginiti, inservibili, arcaici. Si pensi che proprio quel giorno, il 9 novembre, l’Unità, il giornale del PCI, allora diretto da Massimo D’Alema, usciva in edicola con un libretto regalo dedicato al Socialismo liberale e al pensiero di Norberto Bobbio, autore non riconducibile all’ortodossia comunista, tantomeno al suo movimento internazionale o italiano. Era difficile conciliare una tale contorsione ideologica, se non al costo di puntare a un ripensamento di Marx (lo scriveva in quel librino un filosofo del PCI, Umberto Cerroni, uno serio, per intenderci..), male inteso nella sua lettura tradizionale.
Nell’Unione sovietica era in corso l’ultimo tentativo di vivificare la tradizione comunista, ad opera di Mikhail Gorbaciov. A quel tentativo, tanto generoso quanto fallimentare, anche in Italia si rivolsero con speranza i comunisti, che lo appoggiarono politicamente e “senza riserve”, come scrive Paul Ginzborg nel suo L’Italia del tempo presente, edito da Einaudi nel 1998. L’ennesima speranza mal riposta… Proprio Cerroni aveva cercato di spiegare ottimisticamente le magnifiche sorti e progressive del comunismo internazionale sotto la scommessa di Gorbaciov, in un altro librino regalato dall’unità, dal titolo vagamente inquietante (Se vince Gorbaciov): “Forse sta nascendo nell’Urss una originale sfera del pubblico. Di fatto con la perestrojka e con la glasnost si conferisce sempre maggior importanza alla pubblica opinione, ai mezzi di comunicazione, alla cultura politica, alla scienza”. Stupisce oggi, ma anche allora destava qualche sospetto, l’assoluta mancanza di realismo nel discorso dei comunisti italiani, di quel pessimismo dell’intelligenza che pure li aveva contraddistinti in passato.
Vedere quel muro sbriciolato dall’azione distruttrice dei giovani tedeschi dell’Est e dell’Ovest che si ritrovavano dopo quarant’anni di divisione avrebbe dovuto indurre i comunisti italiani a una seria riflessione, fredda, disinteressata, realista. Invece molti si attardarono a difendere quanto non era più difendibile (e la storia successiva lo ha dimostrato ampiamente).
Non è interessante spiegare oggi (non ne sarei neppure capace) le ragioni storiche di quanto accadde venti anni fa. Nel comunismo italiano, anche in coloro che seguirono la svolta di Occhetto, si coltivava la speranza, l’illusione che l’esperienza riformista di Gorbaciov in Urss potesse avere un successo, e così non fu.
Dopo quel 9 novembre, la storia prese a cavalcare, anche in Italia: il 12 novembre Achille Occhetto, segretario generale del PCI, durante un comizio nella sezione di partito della Bolognina pronuncia le parole fatidiche: occorre cambiare, anche il nome del partito. Il 20 novembre, il comitato centrale del PCI indice il XIX congresso nazionale straordinario del PCI, che si tiene a Bologna nel marzo 1990. Nel gennaio 1991, dopo un anno di dibattito e di polemiche, spesso fastidiose e pesanti, il XX e ultimo congresso del PCI ratifica la svolta: nasce il PDS.
A distanza di venti anni, quel lungo e tormentato percorso appare a me che allora avevo ventisette anni come un percorso iniziatico, una faticosa prassi al di fuori della quale tutto sarebbe cambiato, e nulla sarebbe più come prima. Ad altri, sembrò il gesto liquidatorio di una esperienza vitale, ad altri un vero e proprio delitto: si uccideva il padre.
Ma nonostante la buona volontà, persino l’esatta intuizione di Occhetto non sarebbe bastata. Il PCI, neppure allora, giunse “a una sufficiente autonomia politica e intellettuale dal modello sovietico”. Si restava comunque all’interno di una grande famiglia politica, al più nella posizione del familiare eretico, ma sempre interni al movimento comunista internazionale. Di questo si ebbe chiaramente evidenza quando Occhetto chiuse il comitato centrale del novembre 1989: le prime sue parole, veramente commosse, andarono alla figura di Dubcek che parla alla folla di Bratislava 21 anni dopo la repressione sovietica del suo esperimento del socialismo dal volto umano. “Ventuno anni fa condannammo l’invasione sovietica della Cecoslovacchia… siamo lieti di aver combattuto in questi anni per restituire a Dubcek l’onore politico”. Nel rivendicare l’autonomia dei comunisti italiani dall’impero sovietico, tuttavia Occhetto ne ribadiva in quello stesso momento l’appartenenza alla medesima famiglia politica.
Quanto anche a Como accadde più o meno con la medesima intensità che a Roma. Anzi, proprio un comasco, Gianstefano Buzzi, allora faceva parte del comitato centrale del PCI, e intervenne in quel medesimo comitato, senza discostarsi di molto dall’ortodossia comunista: rivendicava l’esigenza di formare “una nuova politica capace di mettere in campo tutto il patrimonio di valori accumulato nell’esperienza e nella tradizione dei comunisti italiani”. Non altro che una rivendicazione della continuità dell’establishment, che doveva al più essere traghettato in un altro contenitore, senza cambiarne i contenuti politici fatti da esperienza, amministrazione, personale politico affidabile e solido. Rammento allora la sofferenza di tanti comunisti, che nella proposta di Occhetto videro la scialuppa di salvataggio di una lunga tradizione politica, che l’accettarono sì, ma per svuotarne il significato dal giorno dopo la sua accettazione.
Il fatto è che anche Occhetto non nascose che questa era la sua urgenza primaria. Nel suo libro Il sentimento e la ragione, dichiara precisamente il senso della sua proposta, della sua svolta: “Ero convinto che il massimo di rottura significava il massimo di salvataggio e di recupero della parte migliore del comunismo italiano”. Egli aveva agito persino nello stile al pari dei suoi predecessori, Togliatti e Berlinguer: con un misto di autorità e autonomia. Si pensi alla Svolta di Salerno o al Compromesso storico. Il segretario impone, il partito, con qualche malumore, si accoda.
Ma questa volta sarebbe stato necessario un maggior coraggio, una spinta all’innovazione più determinata, un coraggio che già ventuno anni prima era mancato, proprio ai tempi dell’invasione di Praga.
Non ci fu.
Eppure quella di Occhetto fu vista da molti, anche a Como, come il massimo di discontinuità allora possibile; nessuno percepì (se non pochi miglioristi, come venivano chiamati allora) che quella tradizione storica del comunismo italiano sarebbe rispuntata fuori, tra polemiche e ammiccamenti, per i decenni successivi, e avrebbe dato ampi margini retorici a chiunque avesse voluto utilizzarla per la polemica politica: i soliti comunisti cui allude ancor oggi Berlusconi, a quanto pare con notevole successo.
Nessuno si rese conto che il paradosso che sembrava tutelare la tradizione eretica del comunismo italiano, e in effetti ne ritardava la fine, stava proprio nel fatto che il comunismo sovietico, io direi il comunismo tout court, cadeva a Berlino, non a Mosca o a Leningrado. In molti si illusero, sinceramente non chi scrive queste note, che le macerie di quella caduta avessero miracolosamente evitato di seppellire la gloriosa esperienza del comunismo italiano.
Quel percorso, ancor oggi, non è completato: le timidezze degli eredi del PCI-PDS-DS ancora appesantiscono la casa comune tirata su con qualche difficoltà con altri, fino a dare vita alla vera novità del Partito democratico.

A Como come a Roma, occorrerà un sovrappiù di coraggio e di altruismo.

Amministrative del 6 e 7 giugno 2009: una prova d’appello per la politica

Non sapremo, se non dopo il 7 giugno, chi avrà vinto in ciascuno dei 109 comuni comaschi in cui si eleggerà il sindaco. Sin d’ora, però, corriamo il rischio di dover decretare uno sconfitto, la politica: la politica, non necessariamente i partiti, i cui esponenti riescono talvolta a dissimulare le proprie appartenenze per insediare uomini nelle istituzioni. E la politica è stata messa in scacco proprio dalla strategia del nascondimento, della dissimulazione di uomini dei partiti entro liste civiche, in alcune delle quali prevalgono una cultura del particolare, spesso negativa, quando non cordate di interessi per lo più immobiliari. La “cultura” del particolare è a parere di chi scrive il vero responsabile della marginalizzazione dei nostri territori, della loro progressiva riduzione di peso politico. E’ vero che talvolta il progetto che sottostà alla formazione di tale liste civiche a-politiche potrebbe definirsi per una neutralità che sfiora i limiti del tecnicismo: ma allora ci si chiede per quale ragione avviene la raccolta del consenso, l’appello al popolo, quando tale appello si camuffa ipocritamente in un tecnicismo che si configura così come l’ultimo, estremo ridotto dell’ipocrisia italica. Tale strategia del nascondimento sembra speculare: è praticata da destra come da sinistra, risponde a una specifica logica, a volte è persino comprensibile e accettabile, comunemente condivisa. La mia non è un’antistorica critica alle liste civiche, sia chiaro. La politica non può essere totalizzante, certo, e non è detto che in un piccolo comune possa esistere un gruppo di amici, di associazioni, che senta il bisogno di partecipare alla gestione della cosa pubblica. Sono molti i comuni in cui questa spinta è positiva anche nella nostra provincia. In altri casi, le ragioni sono meno nobili. Ma non importa, una politica lungimirante potrebbe metabolizzare anche questi comportamenti, persino i comportamenti “pirandelliani” di esponenti del medesimo partito collocati sia in una lista che nella lista contrapposta. E infatti, c’è un elemento su cui una politica coraggiosa non dovrebbe derogare: indurre le liste civiche, o almeno gli esponenti che in esse si impegnano, a prendere una posizione, a schierarsi: con o contro le politiche amministrative della giunta provinciale destra-leghista? A favore o contro le politiche dei servizi assistenziali della Regione formigoniana? Pro o contro le politiche fiscali e distributive del governo nazionale, la soppressione dell’ICI, la riduzione dei trasferimenti ai comuni dal governo nazionale, il quadro di rigido mantenimento del patto di stabilità? E cosa pensano del finto federalismo fiscale privo di strumenti della Lega? Il Partito democratico sta vivendo, anch’esso al pari di altri, questa condizione di travaglio pre-amministrativo, eppure, più di ogni altra forza politica della provincia di Como, avrebbe necessità di chiedere chiarezza, di fare chiarezza anche tra i propri iscritti che aderiranno a liste civiche. Bisogna ridare dignità alla politica, e tale obiettivo diventerebbe irraggiungibile quando persino chi ne potrebbe trarre beneficio, una forza politica che si propone come l’opposizione democratica in questa realtà provinciale, vi rinunciasse per opportunità non ben chiarite o per timore di un giudizio politico momentaneamente non favorevole.

Miseria dell’informazione

Qualche giorno fa, la nave scuola della politica nazionale, la più paludata e miserabile delle trasmissioni televisive (Ma quando il nuovo governo la chiuderà? Domani sarà già tardi…), si è occupata del Liceo Giovio di Como. Gli studenti hanno girato dei filmini pornografici, dicono i giornalisti di Bruno Vespa. E su questo montano un insieme di informazioni a dir poco deludenti. Gli studenti, giustamente, non ci stanno: macché filmini porno, era una goliardata, una cosa cretina, certo, ma senza alcun intento erotico. Mettere in rete quelle riprese può essere stupido, non altro, sicuramente non perverso, come dal salotto buono della RAI hanno voluto far intendere. Informazione sbagliata quindi. Ma ragioniamo: ogni volta che qualcuno dell’informazione nazionale si occupa di cose comasche, compie degli straffalcioni incredibili. Il che ci fa pensare: ma quando si occupano di altre entità territoriali o sociali marginali, allora, compiono le stesse macroscopiche approssimazioni? Questo dovrebbe farci riflettere sulla qualità dell’informazione italiana. Quanto a Bruno Vespa, che meriterebbe di peggio, qualsiasi cosa di lui pensino gli studenti del Liceo scientifico Giovio, aspettiamo che il preside di quell’istituto gli chieda i danni per aver leso l’immagine del suo istituto, e possa ottenerne tanti da poter ristrutturare tutto l’edifico scolastico.

Il veleno e la politica comasca

Una delle caratteristiche più esaltanti della politica italiana (dai tempi di Cesare Borgia a noi) è la sua natura benevola e politically correct. Non che altrove siano meno velenosi: pensate ai cosiddetti scandali sessuali che ossessionano americani e britannici, e altre storie edificanti del genere. Anche Como non si sta dissociando da questo costume elegante e siccome ci si sta avvicinando a delle elezioni amministrative, ciascuno cerca di guadagnarsi la patente di castigatore dei pubblci costumi. Come dire: accuso te di fare un uso deteriore del potere, al limite addirittura contraddittorio rispetto a quanto predichi in pubblico. Vizi pivati e pubbliche virtù. Torniamo in America, la patria delle eleganze: il castigatore dell’immoralità, della lotta contro la pedofilia, il teo-con a 24 carati, colto in flagrante mentre allunga le sue sane mani su un chierichetto che passava di là. Insomma, a Como l’ideale sarebbe trovare il sindaco Bruni mentre avvia una pratica di conversione all’Islam salafita, e entra in una moschea clandestina con il capo coperto e una finta barba talebana. Ma questo sarebbe un po’ troppo. E quindi si ripiega su un peccatuccio minore, chi non ne combina qualcuno ogni tanto? Qualcosa di veniale, qualcosa come i soldi e gli affari ad esempio. Ed ecco quindi il consigliere comunale di pensiero diessino, il lungo corso Aniello Rinaldi che invia adepti a effettuare visure camerali, ricerche patrimoniali e lancia quindi la sua freccia avvelenata; meglio ancora, fa partire la sua bordata al curaro contro il sindaco-commercialista. E scrive una fondamentale interpellanza con risposta scritta: come a dire, un niente, per il quale la risposta sarà il nulla, per sapere alcune cose sulla attività privata del sindaco. Egli è sindaco sia effettivo che supplente di ben sessanta società, trenta delle quali sono domiciliate presso lo studio del presidente dell’ACSM Giorgio Bordoli. Ora, essere sindaco di alcune società significa ottenere un beneficio da esse? Il Sindaco di Como potrebbe essere “ricompensato” con questi incarichi dal presidente di ACSM da lui stesso nominato a tale responsabilità? Ciò il consigliere Rinaldi non lo dice espressamente ma lo fa comprendee dal tono e dall’agomentazione della sua interpellanza. Chiede infatti, tra l’altro, di sapere se Bruni sia stato nominato nel collegio sindacale di tali aziende prima o dopo la nomina di Bordoli a presidente di ACSM; se percepisce emolumenti per tali incarichi ed eventualmente a quanto ammontino; se l’amministrazione comunale abbia avuto contratti di fornitura o di consulenza con queste società. Insomma, vorrebbe conoscere se ci sono delle interessenze tra pubblico e privato e se queste possano essere configurate come un vero e proprio conflitto di interesse. Ce n’ è abbastanza per intossicare l’intera campagna elettorale del prossimo maggio 2007. Ma vorremmo chiederci: serve gettare veleno nelle acque? Non c’è il rischio che alla fine chi muoia avvelenato sia nessuno dei due contendenti, ma la popolazione civile, che non capisce più, e nel polverone finisca per disaffezionarsi semplicemente alla politica?

Siamo un nuovo corrosivo, contro le incrostazioni e le ruggini…

L’acido solforico è un acido minerale forte, liquido a temperatura ambiente, oleoso, incolore e inodore; la sua formula chimica è H2SO4. I suoi sali vengono chiamati solfati. Un solfato molto comune è il gesso, che è solfato di calcio diidrato. In soluzione acquosa concentrata (>90%) è noto anche con il nome di vetriolo. Soluzioni di anidride solforica al 30% in acido solforico sono note come oleum fumante. Solubile in acqua e in etanolo con reazione esotermica anche violenta, in forma concentrata può causare gravi ustioni per contatto con la pelle. L’acido solforico ha svariate applicazioni, sia a livello di laboratorio che industriale. Tra queste si annoverano la produzione di fertilizzanti, il trattamento dei minerali, la sintesi chimica, la raffinazione del petrolio ed il trattamento delle acque di scarico. È altresì l’acido contenuto nelle batterie per autoveicoli. In combinazione con l’acido nitrico forma lo ione nitronio (NO2+), intermedio nella reazione di nitrazione, impiegata industrialmente per la produzione del trinitrotoluene (TNT), della nitroglicerina e del fulmicotone. Tra gli additivi alimentari, è identificato dalla sigla E 513. Ecco in breve le prerogative di questo importante composto chimico naturale. Pericoloso ma utile, persino nell’alimentazione. E ciò vorremo realizzare con il nostro sito, inserito nel circuito del Larioportal: un’opera di citica corrosiva e persino dissacrante, se bisogna, nei confronti del potere pubblico locale. Cantù, Erba, Como, la Provincia di Como non si meriterebbero amministratori migliori? Ma se guardiamo a cosa si anima nel sottobosco di alcune alternative (tanto a Cantù, che a Como, che a Erba) c’è di che preoccuparsi. Antipolitica? No, per niente, la nostra è opera di politica pura, vale a dire opera di attenzione alla vita della polis. Faremo le pulci a politici e amministratori e vi diremo chi merita e chi no. E per quale motivo meriti o non meriti il consenso. Seguiteci, non ve ne pentirete.

La propaganda boomerang di Forza Italia a Cantù

Sono in una coda infernale, in piazza Parini, quando davanti ai miei occhi svetta un enorme manifesto pubblicitario semovente, incollato a un camion, che mi apostrofa: “Te lo avevamo detto”, o qualcosa del genere. Il riferimento, del tutto esplicito, è alla finanziaria del Governo Prodi. _ Messaggio poco efficace, perché i più si ricordano che la finanziaria pesante di quest’anno è il lascito o meglio l’eredità di cinque anni di allegre finanze dei governi del duo Berlusconi/Termonti; ma tant’è: a modo suo la propaganda sarebbe efficace. _ A volte però la propaganda andrebbe pensata, andrebbe meditato il contesto in cui la si pubblica. E qui, il messaggio, a suo modo efficace, si tramuta in un colpo autolesionistico. Il camion/pubblicità, che oltretutto necessiterebbe di una bella revisione al motore (i suoi gas di scarico, da soli, hanno ri-aperto un buco nell’ozono grande quanto la Svizzera, immagino…), procede con una lentezza esasperante, che si accompagna all’esasperazione di tutti quelli che si trovano: _ a) in coda a bordo delle proprie auto; _ b) in attesa del pullmann di linea in piazza Parini; _ c) a piedi a passare di lì intossicati da tanta lentezza delle vetture. _ Insomma, la pubblicita semovente del partito di maggioranza, che governa Cantù, resta incastrata nel trappolone viabilistico escogitato dalla giunta Forzista/forzista (ma non c’era anche la Lega una volta? Chi l’ha vista?) per far passare un po’ di tempo agli sfaccendati abitanti di Cantù. _ E a questo punto, viene spontaneo chiedersi: d’accordo, ci avevano avvertiti, e noi comunque abbiamo votato per lo schieramento di Prodi. Perché così è andata infatti. Ora, Prodi governi cinque anni, poi lo giudicheremo (per noi, intendo gli italiani tutti…). _ Ma forse Forza Italia (intendo dire quella di Cantù) avrebbe fatto meglio ad avvisarci anche su cosa avrebbe comportato la propria bella pensata di blindare per un anno (uno anno!) e forse anche più, il centro cittadino. Così, oltre ai più di 4 miliardi di lire (2 milioni di euro) quanto è stato il costo del capolavoro della piazza (che assomiglia sempre di più a una grande tomba), ora dovremo contabilizzare quanto ci è costato tutto ciò, in termini di tempo, lavoro mancato, soldi per la benzina consumata, valori ambientali distrutti dall’aumento dell’inquinamento dell’aria. _ Non potevano avvisarci anche di questo? Ci saremmo regolati di conseguenza. _ di ”’Cinzia Colico”’

Primarie: un dato di cui tenere conto, sia a destra che a sinistra

Le primarie dell’Unione a Cantù le stravince Prodi con oltre il 78 per cento dei voti, bene Bertinotti che ottiene il 15 per cento. Ma vince soprattutto la democrazia: la democrazia della partecipazione. Ben 1341 elettori ed elettrici si sono recati a votare in Pazza Marconi, provocando lo stupore anche dei più ottimisti tra gli organizzatori dell’unico seggio cittadino. Sin dalla mattina, gli scrutatori del seggio organizzato in Piazza Marconi si sono resi conto che l’afflusso era sostanzioso. Un iscritto alla Margherita osava sperare in almeno trecento votanti. Ne sono andati a votare quattro volte tanti: non è dato sapere quale sia stata la sua meraviglia. Che questo fosse un appuntamento importante per gli elettori dell’Unione lo dimostra il fatto che solo una scheda bianca è stata depositata nell’urna; una sola è stata la scheda annullata da uno sconosciuto votante. Per il resto, 1339 canturini hanno voluto fare sapere chi è il miglior sfidante da contrapporre a Silvio Berlusconi nelle prossime elezioni politiche del 9 aprile 2006. Ha vinto Romano Prodi con uno schiacciante risultato: 1046 voti, pari a oltre il 78% dei voti. Dopo di lui, Bertinotti ha ottenuto 202 voti, pari al 15% dei votanti. Seguono distanziati Antonio Di Pietro con 59 voti, Pecorario Scanio dei Verdi con 20 voti. L’outsider Scalfarotto ha ottenuto gli stessi voti del navigato Clemente Mastella. Pochini davvero (2 voti in tutto) i voti disobbedienti di Cantù andati alla candidata Panzino. Il risultato complessivo delle primarie dovrebbe indurre ora il centrosinistra canturino a capitalizzare un credito tanto importante, che ha coinvolto di gran lunga una cerchia più vasta dei semplici militanti dei partiti di centrosinistra. Eppure, tale risultato dovrebbe promuovere qualche riflessione in tutto il ceto politico cittadino, di opposizione quanto di maggioranza, per una serie di motivi. 1. Anziutto, vediamo perché l’Unione dovrebbe ragionare con attenzione sul risultato favorevole delle primarie. I 1341 elettori canturini che hanno voluto partecipare alle primarie, prima di essere etichettati come “di centrosinsitra”, sono anzitutto elettori canturini. Mettendosi in fila per votare hanno accettato di farsi “etichettare”, si sono registrati in quanto aderenti al centrosinistra, hanno sottoscritto un programma di massima, hanno persino versato una quota di adesione al momento delle primarie. Hanno fatto qulacosa di impegnativo, e ora rivendicano di essere costantemente consultati, sarebbe naturale, anche nella vita politica cittadina. Quindi i politici del centrosinistra dovrebbero agire di conseguenza, sapere che sono titolari di un’istanza di partecipazione attiva. Ma non sembra che il messaggio sia passato completamente. I politici dell’Unione hanno sì considerato quel voto massiccio come un’iniezione di carica emotiva, di energia psichica, e ora sembrano più attivi del passato: questo è vero; ma le primarie non sono state soltanto un’iniezione di gerovital. Sono di più, molto di più. 2. In secondo luogo, vediamo perché anche il centrodestra dovrebbe interrogarsi su una tale richiesta di partecipazione popolare. Certo a destra la partecipazione non è vissuta in quanto un valore come a sinistra. A destra vige il criterio della gerarchia (almeno così era sino all’avvento della Lega). E dire però che Cantù dalla Lega è governata. Dovrebbe esserci una particolare sensibilità sui temi della partecipazione. Niente. La vita politica cittadina, vista dal ”cotè” govenativo, appare sempre più chiusa, autoreferenziale: si guarda narcisisticamente allo specchio. Sarà per scelta o per necessità, sta di fatto che il divario tra ceto di governo e cittadini si sta allagando sempre di più. E’ ormai una voragine. Se nel centrosinistra questo distacco si accorcia, a destra dovrebbero cercare di fare altrettanto. Invece niente. La corrente polemica interna a Forza Italia su incomprensibili ragioni interne è la dimostrazione di questo reciproco disinteresse tra ceto governativo e governati. Certo, per ora il collante che ha retto, tra classe politica cittadina ed elettorato, è stato quello dell’anticomunismo, maggiorato da una buona dose di interessi immobiliari. Ma potrà tenere per sempre? ”’Cinzia Colico”’